7 – Analisi dell’Etica di Spinoza. Etica I: L’ordine delle cose – (Proposizioni 30-36)

Introduzione

L’intelletto e la volontà, sia finiti che infiniti, non convengono all’essenza di Dio (o della Natura), ma sono modi che appartengono alla natura naturata. Questo viene affermato nelle proposizioni dalla 30 alla 33, che formano la base per rigettare non solo la nozione di intelletto creatore, ma la stessa idea di un Dio personale.

Nelle proposizioni precedenti l’idea tradizionale di creazione ha perso ogni fondamento, dato che la produzione dell’infinità dei modi è ricondotta all’attività necessaria della natura di Dio: non creazione, dunque, ma “deduzione”. Ora Spinoza decostruisce rigorosamente ciò che il teismo può ancora opporre alla sua soluzione. La natura divina, come è stata posta da Spinoza, è incompatibile con un Dio personale dotato di un intelletto e di una volontà infiniti e, con questo concetto antropomorfico, vengono a cadere tutte le altre nozioni che hanno travagliato la secolare disputa teologica, come il fine della creazione, la scelta del mondo (pensiamo al Dio di Leibniz che crea il migliore dei mondi possibili), la Provvidenza, la predestinazione, ecc. Il mondo non è il prodotto dell’intenzione divina, ma l’effetto della produzione necessaria della natura divina. Determinazione causale non decisione creativa.

Il dispositivo concettuale sotteso a questa rivoluzionaria operazione è l’identificazione della potenza e dell’essenza o, per dirlo in modo più preciso, la riduzione della potenza alla necessità interna dell’essenza. Ciò sottrae la potenza produttrice all’arbitrio e all’intenzionalità, rendendola con ciò razionale e intelligibile. Se la potenza di Dio è la sua essenza, ogni causalità arbitraria viene meno, come perdono pregnanza i problemi dell’incomprensibilità della potenza divina e dell’impenetrabilità della sua volontà, problemi e “misteri” filosofici che proliferavano in quell’asylum ignorantiae, definito da Spinoza il grande ostacolo della conoscenza, che è il finalismo, magistralmente demolito nell’appendice a questa prima parte dell’opera.

Fatta piazza pulita di questi falsi problemi, Spinoza ridefinisce nelle ultime tre proposizioni di Etica I l’idea di perfezione dell’azione divina e della sua necessità interna.

Prop.XXX: Il contenuto necessario dell’intelletto divino

Intellectus actu finitus, aut actu infinitus Dei attributa, Deique affectiones comprehendere debet, et nihil aliud. L’intelletto, attualmente finito o attualmente infinito, deve contenere gli attributi di Dio e le affezioni di Dio, e niente altro.

La dimostrazione di questa proposizione fa riferimento all’assioma 6, che afferma la convenienza fra l’idea vera e il suo ideato. Questo vuol dire che ciò che è contenuto obiettivamente nell’intelletto deve necessariamente trovarsi nella natura. Perciò l’intelletto deve contenere e non può che contenere gli attributi di Dio e le sue affezioni.

Il verbo usato da Spinoza non è intelligere ma comprehendere: riguarda il contenuto necessario dell’intelletto infinito o finito. È significativo che intelletto finito e infinito siano messi, per certi versi, sullo stesso piano, in conseguenza dell’ontologia univoca del filosofo. Da notare è anche il nihil aliud che chiude la proposizione: l’intelletto contiene (comprende) solo ciò che è, solo le cose reali, date nella natura, perché solo il reale è intellegibile. Tanto il possibile, quanto l’irreale sono “fuori” dalla comprensione dell’intelletto, non tanto perché vadano al di là delle sue possibilità, ma semplicemente perché, nell’ontologia spinoziana, non hanno alcun significato. L’intelletto non è una facoltà, dato che esso è inteso sempre in atto, l’atto stesso di comprendere.

Prop. XXXI: Intelletto e volontà come modi del pensiero

Intellectus actu, sive is finitus sit, sive infinitus, ut et voluntas, cupiditas, amor et ad Naturam naturatam, non vero ad naturantem referri debent. L’intelletto in atto, sia finito o infinito, come pure la volontà, la cupidità, l’amore, ecc., si devono riportare alla natura naturata, non già alla natura naturante.

Questa proposizione ribadisce che l’intelletto è un modo dell’attributo pensiero e quindi non fa parte della natura naturante, la natura di Dio presa assolutamente, ma della natura naturata. L’intelletto divino, come ogni intelletto, non precede le cose (non è un intelletto creatore), ma semplicemente le riflette, allo stesso modo, anche se con un’incomparabile maggiore potenza, di quello umano.

Nello scolio Spinoza ritorna sul senso in cui va intesa la locuzione “in atto”. L’intelletto non è una facoltà, non può essere mai inteso come intelletto in potenza, ma sempre e solo come la stessa operazione di intendere. Per la chiarezza con cui Spinoza sottolinea questo fatto, è utile riportare integralmente le sue parole.

La ragione per la quale qui parlo dell’intelletto in atto, non è perché concedo che ci sia un intelletto in potenza; ma perché, desiderando evitare ogni confusione, non ho voluto parlare se non della cosa percepita da noi nel modo più chiaro, cioè dell’intellezione stessa, che è percepita più chiaramente di qualunque altra cosa. Noi, infatti, non possiamo intendere nulla che non conduca a una conoscenza più perfetta dell’intellezione.

Prop. XXXII: Volontà come causa necessaria

Voluntas non potest vocari causa libera, sed tantum necessaria. La volontà non può essere chiamata causa libera, ma solo causa necessaria.

Sotto attacco, anche in questa proposizione, è il concetto di Dio personale creatore. Il bersaglio è ora la volontà divina e, conseguentemente, il supposto libero arbitrio divino. Dio non ha creato il mondo grazie alla sua libera volontà, dato che questa è un modo, un effetto di Dio. Essendo la volontà un modo, non può essere “libera” (nel senso di arbitraria), dato che agisce sotto la costrizione della causa che la fa esistere.

La volontà, come l’intelletto, è un modo di pensare, perciò ogni suo atto è preso nella serie di causalità transitive dell’ordine della natura. In altri termini, ogni volizione ha una o più cause e uno o più effetti. Non c’è dunque nessuna volontà creatrice o spontanea e la potenza divina infinita si manifesta in ogni volizione particolare attraverso il sistema delle cause.

Prop. XXXIII: L’ordine necessario della natura

Res nullo alio modo, neque alio ordine a Deo produci potuerunt, quam productæ sunt.

 

Le cose non hanno potuto essere prodotte da Dio in nessun’altra maniera né in nessun altro ordine se non nella maniera e nell’ordine in cui sono state prodotte.

È la proposizione più importante del blocco che stiamo esaminando.

L’ordine della natura non può essere diverso da quello che è, quindi non c’è un altro mondo possibile da quello effettivamente esistente. Questo non solo da un punto di vista fattuale, ma anche da un punto di vista ontologico. La natura di Dio e la natura delle cose, infatti, non sono dissociabili, essendo questa l’esplicazione di quella. La potenza delle cose, infatti, altro non è che la potenza di Dio. L’universo reale, quindi, è il solo e unico universo necessario. L’identificazione di Dio con l’ordine della natura raggiunge con questa proposizione la massima intensità. Se l’ordine della natura fosse diverso da com’è, anche Dio dovrebbe esserlo, dato che moltiplicare gli ordini della natura possibili porta necessariamente a moltiplicare Dio.

Lo scolio 1 trae da questa proposizione l’invalicabile conseguenza che non c’è né il possibile né il contingente. Per illustrarla, Spinoza definisce prima il necessario e l’impossibile. Ci sono solo due modi per intendere correttamente la necessità di una cosa: o perché la sua esistenza segue dalla sua essenza (necessità intrinseca di Dio) o perché la sua esistenza segue da una causa efficiente data (necessità estrinseca dei modi). Anche l’imposssibilità della cosa rimanda a soli due modi: o perché l’essenza di una cosa implica contraddizione (il classico esempio del cerchio quadrato) o perché non c’è alcuna causa efficiente che comporti la sua esistenza. Questa impossibilità estrinseca ribadisce un concetto già visto e cioè che l’inesistenza di una cosa è tanto necessaria quanto l’esistenza di un’altra.

Dopo questo chiarimento segue la definizione del contingente, concetto che viene qui identificato con il possibile. Ebbene, il contingente non ha luogo alcuno, dato che esso è frutto solo di un difetto di conoscenza. Noi infatti definiamo contingente sia una cosa di cui ignoriamo che l’essenza implica una contraddizione (quindi una cosa impossibile che noi crediamo invece possibile e quindi interpretiamo la sua inesistenza non come contradditoria, ma solo come frutto di contingenza: in altri termini scambiamo una inesistenza per impossibilità come una inesistenza per contingenza) sia una cosa di cui ignoriamo come si inserisca nell’ordine delle cause (scambiamo una conoscenza parziale e insufficiente come una contingenza della cosa). Il contingente, insomma, non è pensabile razionalmente, dato che per definizione è senza causa. Nulla è contingente né le cose della natura né tantomeno le sue leggi. Solo la necessità esprime qualcosa di reale, non l’impossibile né il contingente: il primo è un essere di ragione, qualcosa che deriva dal nostro intelletto, ma che non ha luogo nella realtà, il secondo, invece, è un puro essere di immaginazione, legato alla nostra ignoranza, frutto di conoscenza inadeguata. In questo scolio il determinismo ontologico di Spinoza viene rigorosamente ribadito.

Lo scolio 2 riprende il tema già trattato dell’onnipotenza divina e del suo supposto libero arbitrio. A questo proposito, si possono distinguere tre concezioni della perfezione e della potenza divina. Il libero arbitrio cartesiano (Dio può fare ciò che vuole), il razionalismo teologico di ispirazione platonica o leibniziana (Dio agisce determinato dal bene e solo dal bene) e infine l’esplicazione del mondo come necessità intrinseca di Spinoza, che assimila perfezione divina e assoluta necessità della produzione dell’ordine naturale. Il filosofo olandese riserva la critica più radicale al razionalismo teologico.

Importante ciò che scrive Macherey su questo punto.

In opposizone alla concezione che possiamo chiamare antica o pagana di una divinità la cui sovranità è limitata da un insieme di determinazioni esteriori sulle quali non ha presa, la concezione moderna, cioè critiana o giudeo-cristiana, di Dio, che consiste nell’affermare l’infinità e l’assolutezza, dunque la totale libertà della sua natura, rappresenta agli occhi di Spinoza un incontestabile progresso: in tal senso si può dire che essa è più vera della precedente. Ma Spinoza non avalla questo modo di rappresentarsi l’essere divino se non con la riserva di un esame più approfondito. Non accetta che la logica di questa concezione, che tende a restituire a Dio la pienezza della sua potenza, ciò che gli conviene perfettamente, lo faccia al prezzo di una confusione fra questa potenza e le diverse figure del potere umano, fatto che porta a reintrodurre nell’esercizio di questa potenza una dimensione di esteriorità, oltre che di irrazionalità, cioè di negatività, che la riduce al livello di un volgare potere. C’è dunque errore ed errore. Se non è accettabile concepire le prescrizioni della volontà come essenti, in Dio più ancora che in noi, autonome in rapporto a ogni principio razionale, è ancora meno vero ammettere che i principi razionali, che aderiscono strettamente all’azione divina ben più di quanto la guidino dall’esterno, intervengano in modo da sottomettarla a un ordine dei fini come suggerisce il riferimento alla ragione del bene, anziché far comprendere come segua necessariamente l’ordine delle cose, che è l’ordine della natura stessa. (P. Macherey, Introduction à l’Ethique de Spinoza. La première partie: la nature des choses, PUF, Paris, 1998, p. 200-201)

Spinoza concepisce Dio come causa assoluta di ogni cosa, in accordo con la prospettiva monoteistica, ma si tratta solo di una somiglianza superficiale, dato che ridefinisce tutte le nozioni che ne stanno alla base: l’onnipotenza divina non significa in alcun modo “libertà di volere” nel senso che tutte le cose derivino da arbitrari e insondabili decreti divini, significa invece che esse seguono necessariamente dalla sua natura come le conseguenze seguono dal loro principio; la libertà divina è indisgiungibile dalla necessità intrinseca e si oppone alla necessità estrinseca delle cose costrette; la perfezione, infine, è pensata come una perfezione necessaria senza alcun rapporto con una qualunque imperfezione, da qui la totale identificazione fra perfezione e totalità. Queste ridefinizioni permettono a Spinoza di usare il lessico della “teologia” tradizionale senza alcuna adesione sostanziale alla sua prospettiva.

Prop. XXXIV: Identità in Dio di essenza e potenza

Dei potentia est ipsa ipsius essentia. La potenza di Dio è la sua stessa essenza.

La potenza di Dio non è altro che la sua essenza e solo questo. Non è un potere creatore. Non è un attributo di Dio fra gli altri, come il pensiero e l’estensione: è ciò che si esprime attraverso ognuno degli attributi di Dio. Non è nemmeno un “proprio”. Dio non è onnipotente (aggettivo), la potenza non è una delle sue caratteristiche fra le altre, Dio non ha la potenza, ma è potenza (sostantivo), Dio consite nella propria potenza.

Bene dice Guéroult a questo proposito.

L’essentia actuosa è la vita di Dio. Infatti, poiché si intende con vita “la forza per la quale una cosa esiste e persevera nel suo essere”, e poiché Dio esiste e persevera nella sua esistenza per essenza, la vita di Dio è, in questa misura, la sua essenza stessa, e Dio, per conseguenza è la Vita. Delle cose singolari, invece, diciamo semplicemente che hanno la vita, perché non esistendo e non perseverando nel loro essere solo in virtù dell’ordine intero della natura e non per la sola forza propria, la vita è in esse distinta dalla loro essenza.» questa vita è il dinamismo razionale attraverso il quale Dio si produce e produce ogni cosa. (M. Guéroult, Spinoza. 1. Dieu, Aubier, Paris, 1968, p. 381)

Prop. XXXV: Potere e potenza

Quicquid concipimus in Dei potestate esse, id necessario est. Tutto ciò che concepiamo essere in potere di Dio, è necessariamente.

Fondata sulla proposizione precedente. Non c’è “riserva” nel potere di Dio: il potere (potestas) di Dio non è che la sua potenza (potentia), e non un potere tipo libero arbitrio. La potestas viene negata dalla potentia. Derivano dalla natura di Dio, o dalla sua potenza, tutte le conseguenze che ne possono derivare, tutto ciò che è compreso nella sua essenza e niente di meno o niente di più.

Prop. XXXVI: La produttività delle cose

Nihil existit, ex cuius natura aliquis effectus non sequatur. Nessuna cosa esiste dalla cui natura non segua qualche effetto.

Proposizione sulla potenza di Dio nelle cose: tutta l’ontologia di Etica I consiste nel parlare delle res e non di Dio stesso. Viene detto che tutte le cose hanno potere divino in loro e sono in grado di produrre esattamente come Dio produce. L’ontologia della prima parte, che consacra la divinità delle cose, cioè la loro potenza, è costruita in vista di un’etica. Lo sforzo dello spinozismo è di pensare rigorosamente la produttività delle cose singolari. Tutte le cose hanno in un certo senso potenza: non sono onnipotenza, dato che sono potenza in un certo e determinato modo, la stessa potenza di Dio, ma concepita nei limiti della loro determinazione propria. Ciò che è vero è che tutte le cose sono Dio, nel senso in cui la produttività divina si ritrova in ogni cosa e che tutte le cose hanno la stessa divinità di Dio. Ogni cosa ha il potere di produrre, esattamente come Dio.

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