Ontologia e metafisica in Differenza e ripetizione di Deleuze – 4. Il principio di identità

Definire un ente. L’identità del diverso

Che cos’è un ente? (una penna, ad esempio) Noi vediamo penne diverse l’una dall’altra o, se uguali nella forma, le riconosciamo composte da materiali diversi o, se consideriamo la stessa penna, la vediamo posta di volta in volta in luoghi diversi o posta nello stesso luogo ma in momenti diversi. Abbiamo sempre a che fare con una molteplicità di aspetti, eppure la domanda “che cos’è una penna?”, cioè la domanda che chiede che cosa sia una penna in quanto tale, la sentiamo come una domanda pienamente legittima.

La domanda “che cos’è?” chiede l’essenza di una cosa, la definizione di ciò che una cosa propriamente è. Definire un ente significa ricercare un’unità che si ripete nella molteplicità delle manifestazioni fenomeniche dell’ente in questione, ricercare ciò che permane ed è identico e che, tuttavia, si mostra ogni volta diverso. L’identità sottesa alla diversità è ciò che rende gli enti fra loro comparabili, è l’universale che è nel singolo ente (il genere al quale l’individuo appartiene: Aristotele) o l’universale che è oltre l’ente ma al quale l’ente si riferisce per legittimarsi (l’idea, della quale l’ente empirico è copia: Platone). Il “che cos’è” chiede l’identità del diverso. Non si interroga sulla differenza, ma sull’identità. Non si interroga sulle cose, ma sulla somiglianza delle cose fra di loro, sul fatto che gli enti empirici sono fra loro reciprocamente simili in quanto tutti riferentisi a un’identità preliminare.

L’analogia entis come sinossi del reale

L’analogia entis è un’enorme sinossi del reale, guidata dall’intento di ricondurre a unità ciò che è disperso. Assegnando all’essere un luogo proprio, raccoglie il molteplice e lo dispone in rapporto all’identico, lo fonda, lo salva, lo assicura. Lo salva dal pericolo della mera e dispersa diversità, dal pericolo dell’anonimato (che altro è omonimia ed equivocità se non mancanza di un nome proprio: cose diverse hanno tutte un unico nome, un nome comune e questo equivale a non avere nome affatto), dà alle cose una famiglia.

L’analogia dà ordine alla totalità del reale: da un lato, stabilisce il senso proprio dell’essere, quel senso al quale tutti gli enti, in quanto enti, devono poter essere ricondotti, dall’altro, ripartisce il reale entro una rete complessa di generi e specie e fa di tale organizzazione la condizione essenziale per la comprensione del reale stesso. L’analogia, tuttavia, non chiama le cose per nome, ma per cognome, dà alle cose una famiglia alla quale appartenere (un genere a cui appartenere, un concetto in cui comprendersi): che altro è sinonimia e univocità se non identità generica: la famiglia animale comprende i mammiferi, i pesci, gli uccelli, ecc. Le cose, poi, hanno anche un nome, ma per essere identificate devono essere riportate al loro cognome, alla famiglia a cui appartengono, pena l’omonimia: Tizio, per non essere uno qualunque dei Tizi incontrabili, dev’essere Tizio Tal dei Tali. Equivoca dispersione del reale o univoca uniformità del reale: l’analogia è una mediazione tra questi due estremi, né diversità né identità, ma somiglianza.

L’ontologia come affare della logica

La molteplicità dell’essere è compresa nell’unità del concetto. È la noésis, il puro pensiero ( noûs), il pensare (noeîn) il luogo dove si raccoglie (lógos – léghein) propriamente l’essere (tò ón, tò eînai): l’ontologia è affare della logica. Il noeîn sottrae l’essere alla dóxa, al dokeîn, alla mera apparenza. Il pensiero e solo il pensiero coglie adeguatamente l’essere, perché lo raccoglie nella sua unità (lógos): Veritas est adaequatio intellectus et rei: il dire giustamente, cioè il dire la verità è far sì che essere e pensiero dicano lo stesso, è far sì che il pensiero dica proprio ciò che l’essere è. La filosofia del Settecento, cioè la filosofia moderna, ci ha consegnato una formula efficace di questa identità di essere e pensiero: Berkeley “esse est percipi“. Essere ed essere percepito sono lo stesso.

Identità di essere e pensare

È possibile che la tradizione metafisica che si è instaurata a partire dall’ontologia di Parmenide e contro Parmenide e la sua concezione univoca dell’essere si ritrovi a dire lo stesso del pensatore di Elea? Parmenide, infatti, aveva detto “tò gàr autò noeîn estìn te kaì eînai“, lo stesso è pensare ed essere. Oppure nella sentenza di Parmenide vi è un senso dell’essere che il pensiero filosofico tradizionale ha tradotto (tradito e tramandato) in modo improprio? Come va intesa l’identità di essere e pensiero?

È necessario, per rispondere a questa domanda, interrogarci sul principio di identità, perché nel modo in cui l’identità è stata intesa (un principio della logica, un principio del pensiero) o fraintesa (ma il fraintendimento non è un errore del pensiero, ma un errare del pensiero, ciò che appartiene in modo essenziale al cammino del pensiero) è inscritto il destino della metafisica come onto-teo-logia.

Identità e differenza

Il principio di identità e La costituzione ontoteologica della metafisica sono i due saggi che compongono Identità e differenza di Heidegger.

Der Satz der Identität: Satz = proposizione e principio, ma anche balzo, salto; è un qualcosa che ha a che fare con la logica, ma è un qualcosa che, prima ancora, ha a che fare con il cammino, con il muoversi del pensiero, con l’esperienza (Erfahrung) del pensare. E Heidegger, all’inizio del saggio sull’identità, ci invita a prestare attenzione più che al contenuto del pensiero al percorso che il pensiero compie. Der Satz der Identität è il salto dall’identità alla differenza, il distacco dal pensiero rappresentativo, l’inizio e il compimento del cammino che ci deve portare dal tò autó di Parmenide all’Ereignis di Heidegger.

Identità come uguaglianza e come medesimezza

Nel pensiero filosofico tradizionale, il principio di identità vige come legge suprema del pensiero. Con il principio di contraddizione, quello del terzo escluso e, per certi aspetti, quello di ragion sufficiente, è uno dei principi fondamentali della logica.

Formula corrente del principio di identità: A = A.

La formula corrente nomina l’uguaglianza (due termini) non l’identità (un solo termine). L’uguaglianza pone come uguali, sotto un determinato aspetto, due cose che, in quanto due, sono distinte, diverse. La relazione di uguaglianza parte da una diversità fra enti, cose, oggetti sussistenti e giunge a un’uguaglianza, cioè a una scomparsa della diversità. Due cose vengono considerate uguali a prescindere dalle loro peculiarità (fosse anche solo la loro diversa collocazione spaziale), considerando solo ciò che le accomuna. L’identità come uguaglianza è il togliere agli enti le loro differenze, è applicare al molteplice una reductio ad unum. L’uguaglianza, insomma, non dice che una cosa è, in quanto tale, se stessa e identica a sé, ma che essa è, sotto un certo riguardo, uguale ad un’ altra. L’uguaglianza nasconde l’identità.

Formula appropriata per il principio di identità: A è A.

Nell’identità c’è la relazione di sé con sé (unione in direzione dell’unità). L’identità non è, infatti, uniformità, non è mera tautologia. Quando si afferma che una penna è una penna, si dice la relazione di sé con sé che l’ente intrattiene per essere ciò che è. La filosofia dell’idealismo speculativo, per prima, presenta l’identità come mediazione (identità concreta, non astratta).

Il medesimo non si identifica mai con l’uguale, e neppure con la vuota uniformità del puramente identico. L’Uguale si volge sempre verso il senza-differenze (verso differenze meramente rappresentate) affinché tutto si accordi in esso. Il medesimo, invece, è la reciproca appartenenza del differente a partire dalla riunione operata dalla differenza. Il medesimo si lascia dire solo quando è pensata la differenza. Nel determinarsi del differente viene in luce l’essenza riunente del medesimo. Il medesimo esclude ogni ansia di risolvere il differente sempre solo nell’uguale. Il medesimo unisce il differente in una unione originaria. L’uguale, per contro, disperde nell’insipida unità dell’uno unicamente uniforme. ( M. Heidegger, …Poeticamente abita l’uomo …, in Saggi e Discorsi, Mursia, p. 129)

Il principio di identità come legge ontologica

Anche la formula A è A rimane astratta: presuppone già il senso dell’identità. Ciò che della formula dobbiamo ascoltare è la parola “è”: il principio di identità parla dell’essere dell’essente, vale come legge del pensiero in quanto è legge dell’essere (a ciò che è appartiene l’identità di sé con sé). Parmenide: la parola originaria sull’identità: tò gàr autò noeîn estîn te kaì eînai. Identità di essere e pensiero. Cose differenti (pensare ed essere) sono predicate dello Stesso. La metafisica ci dice che l’identità appartiene all’essere (l’essere è identità). La molteplicità degli enti si ordina nell’unità di un genere, la molteplicità delle categorie o dei generi sommi si riporta a un senso fondamentale, quello della sostanza. Ciò che permette tale operazione è il pensare correttamente e il pensare correttamente è pensare oltre la percezione sensibile.

Ma che cosa viene propriamente affermato di tò autò nella sentenza di Parmenide? Si afferma che identità è co-appartenenza di due differenti: pensare ed essere appartengono allo Stesso e, sulla base di tale appartenenza, si appartengono l’uno all’altro. Pensiero ed essere si corrispondono. Tò autò è Zusammengehörigkeit. Necessità di ripensare il concetto di Zusammengehörigkeit:

  • accezione corrente (il gehören determinato dallo zusammen = essere già predisposti all’interno di un’unità, in vista di una preliminare identità, avere una connessione con ogni altro elemento della classe soddisfacendo la proprietà che determina la classe stessa. Es. l’appartenenza degli individui alle specie o delle specie ai generi o l’appartenenza dei numeri dispari all’insieme dei numeri naturali); due cose si co-appartengono quando sono elementi di un insieme, quando hanno, cioè, il proprio essere commisurato a quello dell’insieme a cui appartengono: co-appartenere assume allora il senso di appartenere assieme ad altri e quello di essere in connessione con altri. Se dico Pietro è un uomo e Giovanni è un uomo, ciò che hanno in comune Pietro e Giovanni è il loro esser-uomo, pertanto essi si co-appartengono, appartenendo assieme all’insieme “uomo”, si pongono, cioè, come uguali in rapporto a tale insieme.
  • accezione heideggeriana (è il gehören ad essere determinante: non è più la comunanza a determinare ciò che i differenti sono, ma gli appartenenti a determinare ciò che fra loro è comune). Le cose stanno, dunque, in tutt’altro modo. È necessario ripensare radicalmente non solo l’identità, ma anche i differenti (essere e pensare) che si co-appartengono.

Pensiero come tratto distintivo dell’uomo: l’identità è co-appartenenza di uomo ed essere. Che cos’è essere? Chi è l’uomo? Il rischio di assumere il punto di vista dell’essere o quello dell’uomo (come pre-disposti all’unità) per rispondere a queste domande. La metafisica ci impone di pensare come far sì che uomo ed essere si co-ordinino in vista di un’unità che li comprende entrambi, di un’unità che li predispone a un accordo, a un’adaequatio.  E se la predisposizione fosse il richiamarsi l’un l’altro e, quindi, il mantenersi della differenza? tò autò non è un richiamo all’ordine, un imperativo affinché le differenze si compongano in unità, tò autò è il mantenimento della differenza nel rispondere dell’uno all’altro.

Chiarimento del significato di “essere e pensare”

La metafisica legge l’essere (e il pensiero) come un tratto dell’identità. L’identità è ciò che si dice dell’essere (e del pensiero) e l’adeguarsi dell’uno all’altro è ciò che si dice dei loro rapporti. Parmenide, al contrario, nomina l’identità come un tratto dell’essere (e del pensiero).

Nel saggio Moira (M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit. p. 158-175) si trova un decisivo chiarimento dei due termini essere e pensare noeîn ed eînai): nella frase di Parmenide il termine enigmatico, è tò autò. Tale termine è il soggetto della frase, è ciò di cui si tratta, ciò che si determina come essere e pensare. Essere e pensare (i differenti) si predicano di tò autò (lo stesso). La metafisica legge questa frase rovesciandone l’ordine grammaticale: l’identità è ciò che si dice della differenza di essere e pensare. In tal modo, il senso originario della sentenza di Parmenide viene frainteso. È necessario chiarire il predicato di tò autò, cioè “essere e pensare”. Quando Parmenide parla di eînai in realtà intende sempre eón, quando parla di noeîn, intende tale termine come fondato nel léghein . Heidegger definisce l’eón come la presenza di ciò che è presente.

La penna che ho in mano è un ente, è un qualcosa che è, una determinazione che è. Nel suo essere tale qual è essa è un qualcosa (appunto una penna), ma non è semplicemente qualcosa, ma qualcosa che è qui presente. Ogni essente, pensato in quanto tale, pensato nel suo essere ente nel senso participiale del termine (il participio è tale in quanto partecipa di due modi d’essere, quello del nome e quello del verbo) si articola (si di-spiega, ent-falten) nella differenza (nel di-spiego, Zwie-falt) di essere ed essente, di ciò che è presente (la penna) e della presenza dell’essente (l’esser-presente della penna). Ogni essente (eón) si articola in essenza (l’esser-ciò di una cosa, il suo was ist, il quid est) ed esistenza (l’esser-presente, incontrabile, percepibile di ciò che è).

L’eînai di Parmenide, allora, pensato come eón , non va inteso semplicemente come il puro essere, l’essere in quanto tale, ma come An-wesen, come essere presente di ciò che è presente (l’essere presente di qualcosa). Nella sentenza di Parmenide viene enunciata la co-appartenenza di pensiero (o uomo) ed essere dell’essente (o dell’ente nel suo essere presente). L’ente, in quanto di-spiego di essere ed essente, esige, proprio in quanto tale, proprio in quanto essere presente, in quanto presentarsi di ciò che è presente, il pensiero, il noeîn. Se noi traduciamo il termine noeîn con pensiero, noi, figli della filosofia cartesiana dell’ego cogito, non possiamo fare a meno di considerare il pensiero come un’attività del soggetto. Il pensiero è quell’attività del soggetto attraverso la quale l’io determina ciò che è. Così tutto diventa soggettivo e l’essere, l’ontologia, viene a dipendere dalla logica. Heidegger traduce noeîn con in-die Acht-nehmen, prestare attenzione, inteso come un lasciar pervenire qualcosa a sé, prendendo posizione nei confronti di ciò che si mostra. Il noeîn accoglie l’eînai: prestare attenzione è accogliere la presenza di ciò che è presente (in die-Acht-nehmen west die Zwiefalt an. v. M. Heidegger,Saggi e discorsi, cit., p. 165-166).

La verità come co-appartenenza di pensiero ed essere

Lo stesso è il pensare e ciò a causa del quale è il pensiero, perché senza l’essere nel quale il pensiero è espresso non troverai il pensiero. (Parmenide, fr. 8 DK)

In questa sentenza l’essere è chiamato, perifrasticamente, il pensiero che è. Qui Parmenide dice esplicitamente perché essere e pensare sono lo stesso: che cosa significa dire che il pensiero è espresso nell’essere? Il noeîn appartiene all’eón in quanto espresso, in quanto detto nell’essere: il noeîn si fonda e si dispiega a partire dal dire (léghein). Il termine légo è tradotto da Heidegger come portare la cosa presente, nella sua presenza, all’apparire e allo stare. Intendere il noeîn come l’espresso nell’eón significa che pensare (noeîn) è prestare attenzione al dire (léghein) dell’essere (eón), cioè al dispiegarsi dell’ente come cosa presente e presenza della cosa. Il pensiero accoglie l’ente presente nella sua presenza.

Essere significa: mantenersi in luce (in Licht stehen), apparire, venire nella non-latenza. Laddove qualcosa di simile si verifica, ossia laddove l’essere si impone (waltet), ivi si impone e si produce in pari tempo, come a lui inerente, l’apprensione, l’arrestare accogliente in sé dello stabile che si mostra (aufnehmendes Zum-stehen-bringen des sich zeigenden in sich ständingen). (M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, p. 147)

L’apprensione è il noeîn, lo stabile in sé che si mostra è il legómenon (l’esser-detto). Nel di-spiego dell’essente, nell’articolazione di presenza e cosa presente, domina il dire (léghein), in quanto far-apparire, portare alla presenza. Il dire fa apparire l’esser-presente di ciò che è presente, il pensare accoglie l’essere dell’ente, l’ente nel suo essere. Il dire, come dispiegarsi dell’essente, è il di-svelarsi, lo s-velamento (Un-verborgenheit, alétheia ). Allora, assumendo tò autò come soggetto, la sentenza di Parmenide dice che il Medesimo “vige come il di-spiegarsi del di-spiego nel senso del dis-velamento” (M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p. 170), come il venire alla presenza dell’essente nel senso della non-latenza, della verità. Lo stesso venire alla presenza dell’essente concede al prestare-attenzione di accogliere la presenza di ciò che è presente.

È la verità il senso dell’appartenenza del pensiero all’essere. Verità è co-appartenenza di pensiero ed essere. Questa affermazione, a prima vista, assomiglia moltissimo alla tradizionale definizione di verità come adaequatio intellectus et rei ma, in realtà, è molto lontana da essa. L’adaequatio intellectus et rei è la concezione metafisica della verità, dominante nella logica e nel pensiero rappresentativo, in quella visione, cioè, secondo la quale l’uomo, come animal rationale, è il soggetto per i suoi oggetti.

La co-appartenenza tra uomo ed essere come reciproca trans-propriazione

L’uomo è un ente. Come tutti gli altri enti appartiene all’ordine dell’essente, ma, a differenza degli altri essenti, il suo modo d’essere non è quello di essere ente fra gli enti, ma di essere il solo ente che sta di fronte all’essere e ciò in quanto è pensiero. L’uomo è corrispondenza con l’essere e solo questo. L’appartenenza dell’uomo all’essere è ascolto dell’essere. Il proprio dell’uomo è il mantenersi nella differenza con l’essere. Se il proprio dell’ uomo è apertura all’ essere, cioè all’altro da sé, l’uomo è transpropriazione all’essere, trasferimento del proprio sé all’essere (ben diversa dall’appropriazione dell’essere, nel senso dell’impadronirsi e disporre di, ma diverso anche dall’espropriazione di sé). Senza la differenza con l’essere l’uomo non è nulla, o meglio, sarebbe mero ente (l’essere in sé di Sartre).

L’essere è presenza. Senza l’a-chi del presentarsi l’essere non sarebbe. Il proprio dell’essere è il presentarsi all’uomo: non è l’uomo che pone e si rappresenta l’essere, ma l’essere che si presenta all’uomo. L’aprire-sé dell’uomo all’essere e il presentare-sé dell’essere all’uomo, il reciproco transpropriare-sé di essere e uomo è la co-appartenenza, la Lichtung (la radura, il diradare: identità è lasciar-spazio alle differenze, lasciar-essere le differenze).

Il distacco dal pensiero rappresentativo, dal pensiero che definisce l’uomo come animal rationale, appartenente a un genere, all’interno del quale si differenzia per il possesso di una determinazione specifica, la razionalità, è evidente. Il pensiero rappresentativo traduce la transpropriazione di uomo ed essere in rapporto fra soggetto e oggetto. Il distacco dall’uomo come animal rationale è, contemporaneamente, il distacco dall’essere come fondamento, inteso come ciò in cui ogni essente, in quanto tale si fonda.

La costellazione moderna di uomo ed essere

Dove ci porta il salto? Il distacco dall’animal rationale o dal fondamento ci porta verso il sentimentale? verso l’arbitrario? Ci porta, scrive Heidegger, dove già siamo: alla presenza dell’essere, all’essere, uomo ed essere, l’uno all’altro consegnati. Ma dove siamo? In quale costellazione di uomo ed essere? Se ci interroghiamo sulla nostra epoca, balza evidente il fatto che l’essere oggi si presenta come tecnica. La verità della nostra epoca è la co-appartenenza di uomo e tecnica. L’ “era atomica”, l’era della tecnica dispiegata ( = metafisica realizzata).

Che c’entra la tecnica con l’essere? Nulla finché pensiamo metafisicamente e consideriamo l’essere come fondamento (entificandolo in ens summum) e la tecnica come una mera opera dell’uomo, come un piano di progettazione con il quale l’uomo si appropria di ciò che è per servirsene. Tutto è ricondotto all’uomo, al massimo si sente l’esigenza di un’etica della scienza e della tecnica: l’uomo può fare questo? e quello? Ci si chiede molto meno che cosa la tecnica possa fare dell’uomo: uno schiavo? un padrone? Ancora una volta, quando ce lo si chiede, si dà una risposta a partire dall’uomo.

Ma l’essenza della tecnica non è qualcosa di tecnico, un qualcosa di riconducibile all’uomo in quanto soggetto. Scienza e tecnica sono forme di pro-duzione, di conduzione dell’ente dal non-essere all’essere, sono modi di portare l’ente alla presenza, quindi sono forme di verità. Ricordiamo che per Heidegger la scienza che progetta l’ente e la tecnica che ne dispone in base al progetto sono perfettamente coerenti con la metafisica dell’Occidente.  La produzione scientifica costituisce l’oggettività dell’ente, fa apparire l’ente come un oggetto per un soggetto, la produzione tecnica, invece, costituisce la disponibilità dell’ente, resa possibile dall’oggettività a cui questo si è ridotto. La pro-vocazione scientifica chiama l’ente nell’orizzonte dell’oggettività (Gegen-stand) affinché diventi un disponibile (Be-stand) a ogni richiesta di impiego da parte dell’uomo, (pro-vocazione tecnica).

L’essere è pro-vocato (rappresentato) come ente meramente calcolabile (l’essere è il misurabile), l’uomo si rapporta all’essere come a un fondo a disposizione (Bestand) del suo pianificare e calcolare. Il pro-durre tecnico è un condurre l’essere, la natura, a di-(s)por-si in vista di un impiego, la natura viene tra-dotta a fondo energetico disponibile, ridotta a fondo a disposizione dell’uomo (Be-stand). Pro-vocare significa chiamare la natura a manifestarsi dove, come e quando chi fa la richiesta lo vuole. Ora, la tecnica dissolve la stessa oggettività scientifica: l’essere che si svela come Bestand non è più di fronte all’uomo come un oggetto (Gegenstand): il non più fronteggiarsi (e affrontarsi) di uomo ed essere come soggetto e oggetto, ma l’essere l’uno e l’altro condizionati dal loro reciproco disporsi, fa sì che la disposizione acquisti il sopravvento sui termini disposti.

La riduzione dell’essere a Bestand comporta la stessa riduzione dell’uomo a Bestand. Il reciproco disporsi di uomo ed essere come il misuratore e il misurabile, il calcolatore e il calcolabile, il padrone e il fondo, la Zusammengehörigkeit di uomo ed essere nell’età della tecnica ha un nome ed è il Ge-stell (l’im-posizione, l’impianto, la com-posizione), il vicendevole por-si di uomo ed essere. Ebbene, proprio nel Gestell, cioè nel modo della massima alienazione, può mostrarsi, secondo Heidegger, il senso autentico del tò autò parmenideo. Questo perché il Ge-stell, in quanto tale, non si dà più per il pensiero rappresentativo, non è un qualcosa di rappresentabile. La tecnica, che produce l’essere (e l’uomo stesso) come fondo a disposizione, ha la sua verità nel Ge-stell (impianto, insieme di pro-vocazioni, di modi del porre, di modi di chiamare l’ente alla presenza). Oggi, l’identità di uomo ed essere parla nel Ge-stell, parla nel modo della tecnica. Con la tecnica l’uomo può appropriarsi dell’essere, in quanto l’essere è appropriato alla sua essenza, può disporre dell’essere in quanto l’essere gli è fin dall’inizio disponibile.

Il Ge-stell è il disporsi assieme di uomo ed essere come reciprocamente appropriati e, in tale disporsi, viene alla luce l’originario co-appartenersi di entrambi. Ecco la ragione per cui la tecnica può diventare straordinaria occasione di verità. Nel Ge-stell si impone un singolare modo del transpropriare. Nel Ge-stell balena un preludio dell’Ereignis. Il co-appartenersi di uomo ed essere nel Gestell espone (mostra, fa apparire) la trans-propriazione dell’uomo all’essere (Ver-eignung) – l’uomo è sé solo nell’ascolto dell’essere – e l’appropriazione dell’essere all’uomo (Zu-eignung) – l’essere c’è solo come presenza all’uomo, solo nel suo offrirsi, donarsi all’uomo. Nel gioco del vereignen e dello zu-eignen uomo ed essere si appropriano (eignen), sono fatti propri l’uno dell’altro (il proprio, eignen, è il greco autò). È questo appropriarsi che Heidegger chiama Ereignis. L’Ereignis è il Medesimo, tò autò. L’Ereignis di uomo ed essere non può essere colto dal pensiero rappresentativo, da quel pensiero che coglie l’essere come oggetto, come Gegenstand: il Vor-stellen, il porre davanti l’essere come oggetto, è abbandonato nel Ge-stellen, nel com-porre l’essere e l’uomo come Bestand, come fondo a disposizione.

Il significato che Heidegger attribuisce alla pro-vocazione tecnica è chiaro: la pro-vocazione è reciproco appello che uomo ed essere si rivolgono a partire dalla distanza creata dall’oblio della co-appartenenza (Er-eignis). Se si permane nel pensiero puramente rappresentativo – in cui uomo ed essere si affrontano – la pro-vocazione, anziché appello, si fa sfida, uomo ed essere sono entrambi sottoposti alla legge del calcolo e del dominio. Tutta l’ambiguità della provocazione tecnica viene con questo alla luce: il Ge-stell alberga in sé la massima salvezza, in quanto possibilità di rimandare (di restituire) a quell’originaria co-appartenenza di pensiero ed essere in cui riposa il senso dell’Ereignis, ma può nascondere il massimo rischio, quello di trattenersi nella mera calcolabilità e progettualità dell’ente, in cui l’Ereignis, anziché trans-propriazione di uomo ed essere, appare come mera appropriazione dell’ente. Ecco perché il Ge-stell è preludio dell’Ereignis: è il non-ancora dell’Ereignis e, contemporaneamente, l’avviarsi dell’ Ereignis. L’identità di uomo ed essere, dunque, va pensata come Ereignis di uomo ed essere: questa è, credo, la conclusione a cui ci conduce il primo saggio di Identità e differenza.

La differenza come Austrag

Nel secondo saggio emerge un senso tutto speciale del “salto”, inteso come zurück-Schritt (passo indietro), modo di disporsi davanti alla tradizione per poter pensare l’essere non a partire dall’essente per poi superarlo in direzione del suo fondamento (come fa la metafisica), ma per pensare l’essere a partire dalla differenza fra essere ed ente. È nell’Ereignis di uomo ed essere (identità di essere e pensiero) che appare il senso proprio della differenza ontologica, la differenza come Austrag (M. Heidegger, Identità e differenza, p. 31: austragen significa recapitare e sich austragen significa cancellarsi). Dire che l’essere è l’essente equivale a dire che l’essere passa nell’ente, non nel senso metafisico del termine, in cui essere ed ente, in quanto sussistenti, trapassano misteriosamente l’uno nell’altro, ma nel senso ontologico di identità di essere ed ente, essendo l’uno – l’essere – lo s-velante passaggio che tramanda e l’altro – l’essente – l’arrivo che trova rifugio nel non-velamento.

L’essere nel senso dello s-velante-passaggio-che-tramanda e l’essente in quanto tale nel senso dell’arrivo-che-si-cela-nel-rifugio sussistono ( wesen) differenziati in questo modo a partire dallo stesso, a partire dalla differenza (Unter-Schied). (M. Heidegger, Identità e differenza, cit., p. 31)

La differenza come Austrag è la differenza come recapito-cancellazione: lo stesso è ente ed essere significa lo stesso è Übereinkomnis (l’andare a …) e Ankunft (arrivare a …), lo stesso è la differenza fra l’andare a … e l’arrivare a … Il salto dall’identità all’Ereignis di uomo ed essere è quel passo indietro che ci porta dalla metafisica (oblio della differenza di essere ed ente) all’essenza della metafisica (storia, Geschichte, destino-Geschick dell’essere).

 

 

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