Ontologia e metafisica in Differenza e ripetizione di Deleuze – 5. Rovesciare il platonismo. Il simulacro

Nietzsche. Morte di Dio: il mondo vero diventa favola.

Il tema del pensiero di Gilles Deleuze è il molteplice. Detto così può sembrare che non ci sia nulla di nuovo: da sempre la filosofia si pone il problema di comprendere la molteplicità del reale, di comprendere il mondo nella varietà dei suoi aspetti e dare a essi una ragione e un fondamento. Ma qual è la tradizionale immagine del pensiero? Qual è l’operazione che il pensiero compie quando si dispone a comprendere il mondo? Il termine comprendere è molto significativo: la molteplicità dev’essere, appunto, compresa, deve trovare una sua unità nel concetto, le differenze devono ricomporsi nell’identità del fondamento. Questo sta alla base del divorzio fra realtà e apparenza, fra mondo vero e mondo delle ombre, fra una realtà sostanziale e una realtà accidentale, fra noumeno e fenomeno, e così via. Potremmo enumerare tutti i dualismi che percorrono la storia della filosofia.

È Nietzsche che sottopone a una critica genealogica i concetti opposti e complementari di mondo vero e di mondo apparente, mettendo in evidenza l’istanza morale che sta alla base di tale dualismo metafisico: da un lato, vi è la negazione sistematica del divenire, del molteplice, del mondo e della sua ricchezza fenomenica, negazione accompagnata dalla condanna morale di ciò che muta, dall’altro vi è un’arbitraria e surrettizia attribuzione di realtà a ciò che è identico, eterno, uno, ideale, l’apologia e la valorizzazione di tutto ciò che è posto al di sopra della dimensione mondana. Con l’annuncio della morte di Dio e del conseguente estinguersi di tutti i valori Nietzsche pone drasticamente fine a questo dualismo. Il mondo vero diventa favola e, con esso, viene meno anche il mondo delle apparenze. L’annuncio della morte di Dio è la destituzione del modello, del fondamento, dell’originale a cui il mondo si riferiva per legittimarsi. Senza il modello il mondo diventa un’immagine priva di identità, diventa simulacro. L’istanza morale, l’intenzione di mera valorizzazione che guida tutta l’impresa metafisica viene svelata, smascherata.

La riduzione dell’essere al valore, il nichilismo di cui è preda il pensiero occidentale, rappresenta, secondo Heidegger, il punto culminante della metafisica, il suo stesso compimento e Nietzsche, a suo dire, sarebbe l’ultimo pensatore metafisico. Nietzsche è per Heidegger, essenzialmente, il filosofo della volontà di potenza e la volontà di potenza risolve tutto l’essere in volere, lo riporta, cioè al nulla. Ma questo rivela pienamente l’errore originario su cui si costituisce la metafisica, l’oblio dell’essere a favore degli enti, il divorzio del pensiero dall’essere, e perciò il divorzio del pensiero da se stesso, per rivolgersi alla manipolazione degli enti, per esercitare sul mondo il dominio strumentale della volontà. La volontà di potenza, come riduzione della verità al valore e, quindi, al volere, smaschera i caratteri stessi del volere, togliendo a esso i vincoli restrittivi entro cui l’aveva mantenuto la tradizione umanistica, di un volere, cioè, sottomesso alla guida di un soggetto autocosciente e ben intenzionato.

La sentenza di Nietzsche “Dio è morto”, compimento del nichilismo, rappresenta l’ultima parola della metafisica ed è una sentenza apocalittica, nel senso etimologico del termine, che significa rivelazione: rivelando l’oblio dell’essere, rende nuovamente pensabile la differenza fra essere ed ente e con ciò afferma la praticabilità di un pensiero capace di superare nichilismo e soggettivismo.

Heidegger e Deleuze: fenomeno (autenticità) versus simulacro (simulazione)

Il compimento della metafisica ci impone di ripensare la tradizione, di riascoltare le parole originarie per riprenderne il senso. Ma che cosa significa veramente pensare? Qual è il rapporto del pensiero con l’essere? Identità e differenza afferma la co-appartenenza di pensiero ed essere, l’irriducibilità del pensiero all’essere o dell’essere al pensiero, l’inessenzialità di quell’operazione consistente nel cercare con il pensiero un fondamento di quell’essere che la percezione ci presenta molteplice e transeunte, nel riportare l’essere alla ragione, insomma, nel ricercare in esso una ratio, una misura, un qualcosa di costante e di immutabile, di sempre uguale, al di là della selva infinita delle differenze e della molteplicità. Pensare è, invece, rapportarsi all’essere, mantenersi nell’ascolto dell’essere e, perciò, mantenersi nella differenza con l’essere. Il pensiero non è una determinazione che si aggiunge all’animale, costituendolo così come specie “uomo”: il pensiero è il proprio dell’uomo e l’uomo è solo rapporto con l’essere.

Che ne è, a partire da questo pensiero rammemorante (pensiero che ripensa la metafisica come oblio dell’essere), della differenza fra mondo vero e mondo apparente? Che ne è delle cose e del loro senso? Non si ripresenta forse il dualismo metafisico sotto l’inedita maschera della differenza ontologica fra essere ed ente? Ma l’essere di cui parla Heidegger non è il Superente, verità degli enti mondani: l’essere è identico e differente dagli enti. È identico perché non c’è essere al di fuori degli enti, perché l’essere è sempre l’essere degli enti, è differente perché l’essere non è l’ente ma il darsi degli enti, il venire alla presenza dell’ente. Nell’ontologia di Heidegger non ci sono due mondi, il mondo dell’essere e quello dell’ente, un mondo vero e un mondo apparente.

La filosofia della differenza è il pensiero della molteplicità e, in quanto tale, è un pensiero affermativo, perché non nega il molteplice ricomprendendolo in una superiore unità, ma lo afferma nel suo essere proprio, afferma la differenza in sé – dirà Deleuze – non la differenza concettuale. È un pensiero che accoglie l’ente nel suo darsi, nel suo essere, nel suo venire alla presenza, senza imporre al mondo gabbie concettuali. Per tale pensiero il fenomeno non è apparenza, mera manifestazione di un reale che si nasconde dietro di esso, né tantomeno è inganno, parvenza. Il fenomeno non manifesta nient’altro che sé, non manifesta altro da sé.

A partire da questa acquisizione della filosofia della differenza (l’essere è il manifestarsi dell’ente) veniamo a trovarci in un punto in cui la filosofia della differenza di Heidegger e quella di Deleuze divergono, differiscono l’una dall’altra. E la differenza riguarda proprio l’essere dell’ente, il suo manifestarsi. Il mondo è fenomeno – scrive Heidegger – ripensando profondamente il termine fenomeno secondo quanto scrive nel §7 di Essere e tempo. Il mondo è simulacro, afferma, invece, Deleuze.

Il §7 di Essere e tempo è dedicato all’esplicitazione del metodo fenomenologico della ricerca e qui ritroviamo, nel primo grande testo filosofico di Heidegger (1927), l’affermazione dell’identità di essere e pensiero nello stesso senso in cui viene affermata in Identità e differenza (1955). Ciò che la fenomenologia (parola composta da due termini: phainómenon e lógos) afferma è l’autò, la co-appartenenza di essere e pensiero. Phainómenon (da phaínesthai = manifestarsi) è l’ente nel suo manifestarsi, è l’automanifestantesi, ciò-che-si-manifesta-in-se-stesso-e-da-se-stesso. Il lógos (da léghein = dire, raccogliere) è un lasciar vedere, un lasciar essere ciò che si manifesta. Allora fenomenologia significa:

lasciar vedere da se stesso ciò che si manifesta, così come si manifesta da se stesso. Questo è il senso dell’indagine che si autodefinisce fenomenologia. Ma in tal modo non si fa che esprimere la massima formulata più sopra: “Verso le cose stesse!” (M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1976, p. 55)

Il moto “Alle cose stesse!” Heidegger lo deriva dalla fenomenologia di Husserl. Ciò che conta, tuttavia, in questo contesto è che l’identificazione dell’essere con l’apparire, con il venire alla presenza comporta il netto rifiuto della prospettiva metafisica inaugurata da Platone, basata sulla svalutazione dell’apparenza: il venire alla presenza è l’essere dell’ente e pertanto all’apparire, al fenomeno compete la verità nel senso etimologico del termine (alétheia = s-velamento). Ma che cosa sono, poi, le cose stesse? Quale identità, quale fondamento hanno? Nello stesso moto “Alle cose stesse!” risuona, non spento, un richiamo all’identità, all’autenticità. Le cose stesse, reclamando per sé e per nient’altro l’autenticità (non c’è nient’altro dietro di loro, infatti), sono, a modo loro, essenze (eíde), sono l’originale, il modello senza la copia. Il moto “Alle cose stesse!” dice: non ci sono copie, ma solo modelli, archetipi. Se è vero che non è lo statuto ontologico in quanto tale del fenomeno ciò che primariamente importa, quanto il fatto che esso mette in crisi il concetto stesso di copia, di realtà apparente dietro la quale ci sarebbe la vera realtà e con ciò mette in crisi anche il pensiero come rappresentazione, resta però innegabile un pathos di autenticità che accompagna l’espressione fenomenologica, quel pathos verso l’originario, l’aurorale che non è mai assente nel filosofare heideggeriano.

Ma la morte di Dio, il modello per eccellenza, il fondamento di ogni essere, l’origine per eccellenza, viene a toccare profondamente proprio l’archetipo, il modello in quanto tale, il concetto stesso di origine e di autenticità. La morte di Dio lascia le cose nel loro status di copie di un modello che non c’è più e che forse non è mai esistito: le cose stesse sono, in realtà, simulacri.

Non è l’apparire, il fenomeno che può reclamare i tratti dell’ essere, ma è l’essere stesso che si consegna all’apparire e al divenire. Fenomeno e simulacro, allora, si contrappongono e si oppongono come autenticità e simulazione, ma forse, in assenza di copia o in assenza di modello, autenticità e simulazione sono lo stesso. Chi simula e chi dice il vero se il mondo vero e il mondo apparente non sono che un unico mondo? Pensiamo ai titoli delle opere che stiamo esaminando: Identità e differenza, da un lato, Differenza e ripetizione, dall’altro. I due titoli hanno in comune la parola “differenza” e, in entrambi i testi, differenza è rapporto di pensiero ed essere, un pensiero che, anche per Deleuze, è tutt’altro dalla rappresentazione di un oggetto da parte di un soggetto, come l’essere non è l’ente. In Identità e differenza, però, il luogo originario della differenza è l’autó, il luogo dell’autenticità (autó in greco significa “proprio” ed è l’eigen tedesco, a cui va riportato il termine Ereignis), il luogo dell’alétheia, della Lichtung, dell’evento della reciproca transpropriazione di uomo ed essere, sì che possiamo legittimamente affermare che per Heidegger identità è differenza contro la metafisica attribuzione dell’identità alla differenza. In Differenza e ripetizione, invece, il luogo della differenza è la ripetizione, sì che possiamo dire, contro la concezione di una ripetizione come indifferenza, che ripetizione è differenza.

Si tratta di due prospettive opposte? Forse, ma l’opposto e lo stesso hanno fra loro una segreta complicità, quella complicità che si chiama complementarità. L’identità di Heidegger è il darsi della differenza, il suo mantenersi, la ripetizione di Deleuze è il ritornare del differente: ciò che si ripete non è lo Stesso, ma il differente.

La ripetizione indifferente

È chiaro che identità non è uguaglianza ( = scomparsa della differenza = riduzione dell’essere al pensare o del pensare all’essere), ma è chiaro che anche la ripetizione non va confusa con la generalità, con il ripetersi della stessa cosa, o di tante cose che sono le stesse e che tra loro si differenziano solo numericamente. Se l’uguaglianza, in quanto ansia di togliere le differenze, frutto di un’istanza morale che vuol mettere ordine, è un tradimento del senso proprio dell’identità, anche la ripetizione, intesa come ripetizione dello Stesso (genitivo oggettivo non soggettivo), non è vera ripetizione ma ossessione dell’uguale. Due esempi illustrano bene questo aspetto:

(Deleuze sta citando il Danton di Büchner) “È proprio noioso infilarsi sempre prima la camicia e poi i calzoni e di sera trascinarsi a letto e di mattina strisciarne fuori di nuovo e mettere sempre un piede davanti all’altro; e non c’è assolutamente nessuna prospettiva che tutto ciò possa cambiare. Molto, molto triste, e che milioni l’hanno già fatto e che milioni lo faranno e che noi oltretutto consistiamo di due metà, che fanno tutte e due la stessa cosa, così che tutto accade due volte …” (G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1997, p. 10-11, da ora in poi DR, numero pagina)

La poesia di Baudelaire “Les sept vieillards”: il poeta, durante il suo vagare per le vie di Parigi, vede farsi incontro un vecchio cencioso, lo descrive minuziosamente, ma il vecchio non è solo:

… . Lo seguiva uno
simile a lui, diverso in nulla: occhio,
barba, schiena, bastone, cenci, uscito
fuor da uno stesso inferno, centenario
gemello, e questi strani spettri andavano
con egual passo ad una meta ignota.
In che infame complotto ero incappato,
che maligna avventura m’umiliava?
Perché contai, minuto per minuto,
per sette volte quel sinistro vecchio
che si moltiplicava! …
………………………………………………….
… al corteo infernale volsi
le spalle. Esasperato come un ebbro
che vede doppio, tornai a casa, chiusi
la porta, spaventato. Intirizzito
e affranto, con lo spirito percorso
da una febbre e agitato, dal mistero
e dall’assurdità ferito! Invano
del timone voleva impossessarsi
la ragione; sviava ogni suo sforzo
la tempesta coi suoi raggiri, e l’anima
mia, vecchia barca, ballava ballava
senza antenna né albero su un mare
mostruoso e privo di confini!

È la ripetizione senza differenza (tranne la differenza numerica), è la ripetizione indifferente. In Deleuze, invece, il simulacro, quell’immagine diabolica e perversa che Platone vuol bandire, è la ripetizione senza identità, è la ripetizione del differente. Su tale problema è necessario tornare e riflettere a lungo. Prima, tuttavia, va chiarito il tema del simulacro, del suo status ontologico e della motivazione etica della sua esclusione.

La critica platonica al simulacro: condanna morale della ripetizione senza identità

Fin dalla Prefazione di Differenza e ripetizione Deleuze colloca il suo pensiero entro una prospettiva filosofica di antihegelismo generalizzato, perché la differenza e la ripetizione hanno preso il posto dell’identità e della negazione. Se identità è uguaglianza, il differente sarà semplicemente ciò che non è uguale. Ma il negativo ha relazione con l’identità (ne è il semplice rovesciamento) non con la differenza. (DR,1)

Il pensiero moderno nasce dal fallimento della rappresentazione e del suo mondo, il mondo del modello e delle copie; il mondo moderno è, in realtà, il mondo dei simulacri. Le identità sono simulate, sono un effetto ottico del gioco profondo di differenza e ripetizione (in DR Deleuze contrappone ancora uno strato profondo a un piano superficiale, ciò non avverrà più in Logica del senso, dove il senso è un evento di superficie).

Noi vogliamo pensare la differenza in sé, e il rapporto del differente col differente, indipendentemente dalle forme della rappresentazione che li riconducono allo Stesso e li fanno passare per il negativo.
(DR,2)

Ciò che importa del simulacro, ciò che lo rende irriscattabile, irredimibile, ciò che fa di un simulacro un simulacro non è il fatto di essere una copia. Platone, lo sappiamo, filosofa anche per salvare le copie dal nulla ontologico a cui l’eleatismo le aveva ridotte. Non è una determinazione ontologica che caratterizza il simulacro, ma una determinazione etico-eversiva. Il simulacro è ciò che rovescia i modelli, è ciò che mette in discussione l’idea stessa di origine e di modello.

Già nel 1961 nella rivista Etudes philosophiques Deleuze aveva affrontato il tema del simulacro in un articolo dal titolo Lucrezio e il simulacro, ripreso in appendice a Logica del senso (1969) con il titolo Simulacro e filosofia antica (p.223-246). La prima parte del saggio è dedicata a Platone. Anche in Differenza e ripetizione il tema viene trattato, a testimonianza della sua centralità nel pensiero del filosofo francese (DR, 82-94).

Si è soliti pensare al platonismo come a quel sistema di pensiero che ruota attorno a una fondamentale distinzione, quella fra l’idea e la cosa sensibile, fra l’originale e l’immagine, il modello e la copia. Il modello gode di un’identità originaria superiore (solo l’idea non è altro che ciò che è), mentre la copia viene giudicata in base a una sua somiglianza con il modello. La differenza viene dopo, è un qualcosa di derivato, può essere pensata solo dopo l’identità e la somiglianza e solo attraverso di esse. Vi è, tuttavia, un senso più profondo nel platonismo: la distinzione fra mondo delle idee e mondo sensibile copre una distinzione molto più importante, la vera distinzione platonica, quella che non sta fra l’originale e l’immagine, ma fra due specie di immagini (eídola) delle quali una, eikón, è la copia vera e propria, l’altra, phántasma, è una copia bastarda, un simulacro. La distinzione modello-copia, secondo Deleuze, è posta proprio per fondare la distinzione copia-simulacro. La copia è giustificata, selezionata, in nome dell’identità del modello e attraverso la sua somiglianza col modello ideale. La nozione di modello non ha tanto lo scopo di opporsi a quella di immagine (l’idea è fondamento della cosa, non sua antagonista), quanto quello di selezionare le immagini buone (le icone) e smascherare le immagini cattive (i simulacri). Tutto il platonismo è basato sulla volontà di scacciare i fantasmi o simulacri, che hanno un potente riferimento simbolico, il sofista, colui che simula e inganna, colui che finge di sapere, mentre in realtà nulla sa. Platone non cerca l’essenza delle cose, non si chiede cos’è una cosa. Egli cerca la cosa autentica per separarla e distinguerla dalla cosa falsa. La metafisica prima che a un’istanza ontologica obbedisce a un’istanza etica: ecco perché rovesciare il platonismo non significa semplicemente proporre una diversa immagine del pensiero, ma mettere in discussione il pensiero stesso nel suo essere immagine del mondo.

Aristotele parte dall’identità generica e in essa cerca la differenza specifica, Platone, invece, vuole l’identità in sé, per poter isolare ed eliminare la differenza in sé. Aristotele fonda il mondo della rappresentazione e si serve, per questo, di concetti già, per così dire, “addomesticati”, il suo problema è fare ordine, offrire un’immagine coerente e fondata del mondo, opera in un territorio in cui il pensiero ha già sconfitto l’altro da sé (il terreno del pensiero categoriale), Platone, invece, sfida direttamente l’altro dal pensiero, deve istituire l’identità e fare la differenza, differenza assoluta, con l’altro. (DR,84-85)

DR,91: Il rovesciamento del platonismo significa la negazione del primato dell’originale sulla copia, la negazione che l’origine sia il senso delle cose, sia il fondamento a cui le cose devono riferirsi per essere ciò che sono.

Chi è? Non che cos’è? Occorre cercare l’autentico, l’oro puro. Anziché suddividere, selezionare e seguire il filone buono, occorre cercare fra i pretendenti senza distribuirli secondo le loro proprietà catastali; sottoporli alla prova dell’arco che li eliminerà tutti, salvo uno (e precisamente il senza nome, il nomade). Ora, come distinguere fra tutti questi falsi (simulatori, sedicenti) e il vero (il non mescolato, il puro)? Non scoprendo una legge del vero o del falso (qui la verità non si oppone all’errore, ma alla falsa apparenza), ma guardando al di sopra di tutti questi il modello: talmente puro che la purezza del puro gli somiglia, l’avvicina e può misurarsi con esso; e esistendo a tal punto che la vanità simulatrice del falso si troverà, di colpo, decaduta come non essere. All’apparire di Ulisse, eterno marito, i pretendenti si dileguano. Exeunt i simulacri. (M.Foucault Theatrum Philosophicum, in DR,VIII, ed. Il Mulino)

Con Platone si decide filosoficamente di sottomettere la differenza alle potenze dello Stesso e del Simile, poste come iniziali, di dichiarare la differenza impensabile in sé, mero simulacro senza modello. La vera logica della rappresentazione si stabilirà con Aristotele, il quale, negli Analitici e nei Topici, critica la teoria delle idee platonica, mostrando, acutamente, come l’idea sia inadeguata a proporsi nelle vesti di universale (l’universale è ciò che è comune ai molti, l’idea platonica, invece, è individuale in senso eminente). Ma lo scopo di Platone, prima che ontologico, è morale. Il simulacro va esorcizzato per ragioni morali e con esso la differenza che si pretende tale.

Il simulacro o fantasma non è semplicemente la copia di una copia, una somiglianza infinitamente vaga, un’icona degradata. Il catechismo, così ispirato dei Padri Platonici, ci ha reso familiare l’idea di un’immagine senza somiglianza: l’uomo è a immagine e a somiglianza di Dio, ma a causa del peccato abbiamo perduto la somiglianza pur conservando l’immagine … Il simulacro è per l’appunto un’immagine demoniaca, privo di somiglianza; o piuttosto, diversamente dall’icona, ha posto la somiglianza all’esterno, e vive di differenza. (DR,165-166)

Il simulacro, prima che falso, è pericoloso. La sua caratteristica è quella dell’ingiustificata vigenza (valere in assenza del modello), dell’illegittima pretesa. Forse il suo modo d’essere non è neppure la pura negazione del modello, la semplice destituzione dell’identità. Il ruolo del simulacro è ancora più pericoloso: destituisce il modello dello Stesso e instaura il modello dell’Altro, facendo sprofondare il modello stesso nella differenza. Prima dell’identità, che ripartisce al proprio interno le differenze e distribuisce le ripetizioni, era un universo di differenze senza identità e di ripetizioni senza origine.

L’idea nasce da un’esigenza d’ordine (escludere i simulacri) e ha un fondamento assegnato (l’idea del Bene a cui tutte le idee possono essere ricondotte), le differenziazioni che le idee offrono, una volta istituite, sono rappresentative, cioè sono differenze interne all’identità e governate da essa. Non ricorrendo a un sistema di categorie, Platone fonda l’identità su una base costitutivamente morale, il Bene. Le differenze che non obbediscono alla gerarchia dell’identità che dal Bene va all’apparente differenziazione dell’idea, vengono respinte come cattive, false, eversive.

I simulacri possono dare origine a una serie autonoma, indipendente dal loro rapporto col vero essere (l’idea): questa è l’origine del sospetto platonico nei confronti dell’arte e della scrittura stessa. Ricordiamo la polemica contro la scrittura nel Fedro (mito di Theuth): l’arte che il dio Theuth offre a Thamus viene da quest’ultimo rifiutata perché lo scritto, oltre a non essere un mezzo per ricordare, offre solo una conoscenza apparente, affidata com’è all’esteriorità del segno e non all’interiorità dell’anima e alla sua memoria. Il testo scritto è come la figura dipinta, è muto, non è in grado di rispondere alle domande che gli si rivolgono, per questo, cadendo nelle mani di tutti, anche degli incompetenti, si presta a ogni manipolazione. La scrittura è un gioco fatuo, come il giardino di Adone (serra), consistente nel seminare in recipienti artificiali semi che in pochi giorni nascono, senza dare, però, alcun frutto.

La fine del Sofista rappresenta la possibilità del trionfo dei simulacri, poiché Socrate si distingue dal sofista, ma il sofista non si distingue da Socrate e mette in dubbio la legittimità di tale distinzione. Il simulacro si impadronisce dell’originale e lo rende indistinguibile dalla copia. (v. DR, 167) Platone, allora, non ha raddoppiato il reale, ma l’ha ridotto. Il suo scopo è quello di bloccare i simulacri, pretendenti abusivi del reale, ripetizioni senza origine, cioè differenze irriducibili all’identità. La differenza fra origine e originato, istituita da un’istanza morale, non è logicamente fondata, ma è solo fattuale. Per questo mette in campo significativamente il “mito“. E il mito fondatore assume le caratteristiche della prova, di un compito da assolvere, di un enigma da risolvere, una prova che guida e legittima la divisione (la diaíresis come metodo dialettico). Solo il mito autorizza la divisione a fare la differenza, a non essere mera distribuzione ma vera fondazione.

 

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