La “condanna” platonica dell’arte – 1

Copie e simulacri

L’apprezzamento dell’arte egizia nelle Leggi

C’è in Platone un breve ma significativo testo che sembra andare in una direzione, se non opposta, almeno divergente rispetto alla linea principale del suo pensiero sull’arte. È un testo che appartiene al Platone della vecchiaia. Nel dialogo Le Leggi, infatti, il filosofo esprime un vero e proprio apprezzamento, che sconfina nell’ammirazione, per l’arte egizia.

(Gli egizi) hanno esposto i loro modelli (delle belle immagini) nei templi e hanno imposto ai pittori di non innovare nulla al di fuori di questi modelli. Visitando i loro templi si trovano pitture e sculture che datano da almeno diecimila anni e che non sono né più belle né più brutte di quelle che gli artisti fanno oggi, e che procedono da un’arte identica, immutabile. (Le Leggi, 656d-657a).

Quella egizia è un’arte che letteralmente sembra sfidare il tempo. Con il suo carattere ieratico, le sue figure antirealistiche, dalle pose apparentemente stereotipate, quest’arte ha conservato per secoli i medesimi canoni. È un’arte che non tiene conto del realismo della percezione, che rifiuta ogni aggiustamento prospettico. I corpi sono rappresentati in modo statico, in una solenne immobilità, visti contemporaneamente di fronte e di profilo: la testa e le gambe di profilo (ma l’occhio è raffigurato di fronte), il busto e le braccia di fronte. Panofsky nel suo saggio Il significato delle arti visive (Torino, Einaudi, 1992), rileva giustamente che l’arte egizia non è un’arte di imitazione, ma di ricostruzione, non intende rappresentare né un’individualità né un tipo ideale, bensì ricostruire misticamente l’εἶδος del defunto.

È proprio questa immutabilità che Platone esalta nel suo dialogo, sono proprio queste caratteristiche antinaturalistiche, fortemente contrarie alla resa illusionistica del reale, che Platone mostra di apprezzare.

Le due tecniche imitative del Sofista

In un altro dialogo della maturità, il Sofista, Platone distingue due forme della tecnica imitativa, che sono anche due diverse forme di legittimazione ontologica. A una di queste tecniche dovrà appartenere il sofista, di cui cerca la definizione.

Procediamo rapidi alla divisione della tecnica di produrre immagini. […] Applicando il nostro metodo diairetico, mi pare di intravedere due specie della tecnica mimetica, ma in quale delle due si trovi l’idea che andiamo cercando, non mi riesce ancora di scorgere chiaramente. […]

Una è la tecnica secondo la quale l’imitazione viene realizzata in base alle misure del modello, in giusta proporzione, secondo lunghezza, larghezza e profondità, riproducendone esattamente i colori in modo conveniente alle singole parti. In tal modo si ottiene dal modello una copia esatta e si può parlare di mimesi icastica. […] (Non così procedono) quelli che fanno pitture o sculture di grandi dimensioni. Se infatti riproducessero la bellezza del modello secondo le sue reali misure, le parti alte risulterebbero più piccole e le parti basse più grandi del dovuto, per il fatto di essere osservate le une da lontano e le altre da vicino. Per questo gli artefici, sorvolando sulla verità del modello, lo riproducono non secondo le misure reali, bensì secondo le misure che sembrano conferirgli bellezza. Non è giusto, allora, chiamare il prodotto della prima serie icona, cioè copia esatta, e chiamare la parte della mimesi che la riguarda mimesi icastica?

Vi sono opere che appaiono belle proprio in quanto osservate da un punto di vista che non è quello della bellezza originale; ma se uno avesse la possibilità di vederle come esse sono realmente, è probabile che non risulterebbero nemmeno somiglianti al modello. Dal momento che tali opere ci offrono una parvenza, ma non una reale somiglianza, propongo di designare il fenomeno col termine simulacro (φάντασμα). E allora, una tecnica capace di produrre non copie perfette, ma immagini apparenti, non si chiamerà giustamente mimesi del simulacro? […] Questo apparire, questo sembrare … e non essere. (Soph., 235d-235e).

Vi sono le copie legittime, le icone, prodotte dalla tecnica icastica, le quali, pur essendo copie, si conformano alla legge del modello, e quindi, sia pure in modo depotenziato, manifestano l’essere. Vi sono poi i simulacri, prodotti dalla tecnica fantastica, illusionistica, i quali, non solo sono mere apparenze, ma, peggio ancora, si spacciano, nel loro virtuosistico apparire, per il vero essere.

La minaccia al vero essere, quello delle idee, non è tanto portata dal mondo sensibile, il quale, sia in quanto cosa della natura, sia in quanto prodotto artificiale dell’artigiano, mantiene sempre un rapporto con il mondo intelligibile, quanto da quelle tecniche, sia discorsive (l’eristica sofista) sia poietiche (la pittura, la scultura, la poesia imitativa) che si servono esclusivamente dell’illusionismo, dell’inganno, della simulazione.

Platone vive nel momento in cui le arti plastiche prendono sempre più la via del prospettivismo, si orientano verso la resa illusionistica del reale, fino al punto di affidare completamente all’arbitrio dello spettatore e del suo mondo percettivo il senso stesso della bellezza e della verità.

È celebre l’aneddoto che racconta di una gara tra Fidia e un suo giovane e inesperto allievo, Alcamene: si dovevano scolpire due statue di Atena da collocare in cima a due alte colonne. Fidia tenne conto dell’effetto prospettico e ingrandì opportunamente i tratti del volto della statua. Quando le statue furono terminate, ma non ancora collocate al loro posto, la statua di Fidia sembrò talmente grossolana da provocare critiche e scherno da parte della giuria. Ma, una volta collocate al loro posto, la statua di Fidia non ebbe difficoltà a mostrarsi come l’unica riuscita. Fidia, infatti, a differenza di Alcamene, non aveva esitato a falsificare le proporzioni del modello, per sottometterle alle esigenze dello spettatore. Ciò che Platone rimprovera all’esperta tecnica dello scultore è l’aver attribuito un maggior valore all’apparenza piuttosto che al vero essere.

Ma non solo nella scultura venivano contraffatte le forme. Ancora più celebre è la tendenza illusionistica della pittura greca, come testimonia l’aneddoto, raccontatoci da Plinio il Vecchio, dei grappoli d’uva dipinti da Zeusi, che sembravano così veri da ingannare persino gli uccelli che svolazzavano attorno al quadro per beccarli. Qui il virtuosismo diventa parossistico ed autocelebratorio. Parrasio, infatti, l’avversario di Zeusi in questa gara di abilità, che davanti a una simile maestria sembrava ormai spacciato, viene invitato dallo stesso Zeusi ad alzare il velo per scoprire il suo quadro, ma il velo che copriva il quadro non era un vero velo, ma un velo dipinto, cosicché lo stesso Zeusi riconosce la vittoria di Parrasio, perché aveva ingannato non degli uccelli, ma l’occhio esperto di un pittore.

Resa naturalistica, deformazioni prospettiche, illusione, inganno, asservimento ai sensi: è contro tutto questo che Platone si scaglia. Come il sofista simula un sapere che non possiede usando gli artifici della retorica e facendosi beffe del rigore dell’argomentazione dialettica, così il pittore, il poeta e il suo interprete, il rapsodo, spacciano come vere realtà figure che sono, invece, ombre, riflessi, macchie. È evidente che per simili mistificatori non può esserci posto nella Repubblica ideale.

 

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