2 – L’immagine della realtà naturale da Aristotele alla fisica moderna. I principi strutturali del divenire nella “Fisica” di Aristotele

La parte della Fisica di Aristotele che stiamo trattando ha per oggetto l’analisi dei principi strutturali del divenire. Fra questi, l’infinito, il vuoto, il tempo, il continuo.

L’infinito, come dice il nome stesso, non ha, per i Greci in generale e per Aristotele in particolare, il significato positivo che ha per noi. Quando noi pensiamo all’infinito, ci viene in mente qualcosa di immenso, di così grande che non siamo in grado di considerarlo interamente. I cristiani hanno associato questo concetto a Dio. Per Aristotele non è così. Infinito si dice in greco ἄπειρον (apeiron) e vuol dire assenza del limite. È qualcosa che non ha forma compiuta. Il non finito, l’imperfetto. Per questo Aristotele gli nega lo statuto di ente. L’ente è qualcosa di determinato, qualcosa che può essere colto nella sua compiutezza. L’ente è qualcosa che si può indicare, che si può individuare nei suoi limiti, nella sua forma. Qualcosa di cui si può dire “questo qui”. E infatti lo Stagirita chiama l’ente il tode ti (τόδε τι), il “questo qui”, appunto. Ebbene, l’infinito, proprio perché non ha limiti, non può essere indicato come un qualcosa di determinato, come un ente. L’infinito è ciò al di fuori del quale c’è sempre qualcosa. Una grandezza è infinita se è inesauribile. Pensiamo all’insieme dei numeri naturali. Per quanto si prenda un numero grande a piacere, ce ne sarà sempre almeno uno più grande. È sufficiente, infatti aggiungere 1 al numero considerato. L’insieme dei numeri naturali è infatti un insieme infinito. Anche l’insieme dei numeri razionali, dei numeri irrazionali, dei numeri reali, ecc., sono insiemi infiniti. Per restare in ambito matematico, oltre all’infinito per aggiunzione, come quello visto sopra, conosciamo anche l’infinito per divisione. Prendiamo un segmento qualunque e dividiamolo a metà; prendiamo una delle metà e dividiamola nuovamente a metà. La geometria euclidea studiata a scuola ci ha inseganto che possiamo continuare indefinitamente questo processo senza mai giungere a una conclusione. In quest’ultimo caso l’infinito è semplicemente la possibilità di proseguire indefinitamente la divisione. Nel caso dell’insieme dei numeri naturali l’infinito è dato dalla possibilità di aggiungere sempre 1 a un numero per quanto grande preso. Nelle ultime due frasi abbiamo usato il termine “possibilità”. e, come sappiamo dalla volta scorsa, la possibilità in Aristotele è, in un certo senso, affine alla potenza. E infatti per Aristotele l’infinito è, per natura, sempre in potenza, mai compiuto, mai in atto. Aristotele esclude con una frase lapidaria e perentoria che possa esistere un infinito in atto, un infinito tutto dato. Non ci sono “infiniti numeri”, ma sempre un numero finito di numeri aumentabile a piacere. Sentiamo Aristotele in un suo passo della Fisica

È impossibile che l’infinito sia in atto (Fisica, 204 a 28-29)

Se fosse in atto, sarebbe determinabile, sarebbe “qualcosa di compiuto”, mentre invece la natura propria dell’infinito è quella di essere un processo. Per questo, dice Aristotele, l’infinito è affine al movimento e al divenire. Con il movimento l’infinito condivide il carattere di essere atto imperfetto, nel senso chiarito l’altra volta, ἐνέργεια ἀτελής (energheia ateles), un continuo, interminabile processo in via di attuazione. A tale carattere aggiunge poi quello dell’indeterminatezza, ἀόριστος (aóristos). Etimologicamente significa “invisibile”, che non può essere colto con un colpo d’occhio, perché non ha confini. A differenza del movimento, tuttavia, il quale tende a un suo termine, l’infinito è potenza che si caratterizza per il fatto di non poter mai passare all’atto. In conclusione possiamo dire che: Esiste solo il finito. Un finito aumentabile a piacere è chiamato da Aristotele “infinito in potenza”. L’infinito in potenza è l’unico infinito considerato dal filosofo. La natura dell’infinito in potenza è quella di essere un “sorta di divenire”, un processo, non un ente.

 

Anche il tempo, per Aristotele, non può mai essere colto come un “qualcosa” di sostanziale. Anche il tempo è un processo. Tutti i concetti che hanno a che fare con la physis hanno carattere processuale, diveniente, non sostanziale. Il tempo, chronos (χρόνος), ha il suo essere nella successione. Una continua, interminabile successione. La natura del tempo, perciò, non può mai essere colta partendo da una sua parte statica, dall’“adesso”, dall’“istanteto nyn (τὸ νῦν), come lo concepisce Aristotele. L’istante, un momento del tempo isolato, senza la possibilità di determinare un passato o un futuro. Un momento di tempo al di fuori della successione, senza durata. Vedremo più sotto che la natura dello spazio non può essere compresa a partire dal punto, senza estensione, senza dimensione. La continuità dello spazio non è “risolvibile” in infiniti punti. Così l’infinita successione del tempo non è “risolvibile” in infiniti istanti. Per Aristotele tanto l’istante, quanto il punto, costituiscono il “limite” del tempo e dello spazio, soste virtuali entro il flusso del tempo o la continuità dello spazio. l’istante è “tempo” il punto è “spazio”. Il primo, in quanto “fermo”, contraddice l’infinito scorrere del tempo. Il secondo, in quanto “inesteso”, contraddice lo spazio come estensione. Come nel movimento il punto di partenza e il punto di arrivo sono due “stati” che “inquadrano” il movimento, lo circoscrivono, senza appartenere a esso, così l’istante è una divisione “concettuale”, non reale del tempo. Se prendiamo due istanti e li consideriamo come punto di partenza e punto di arrivo dello scorrere di un determinato lasso di tempo, lo scorrere fra questi due istanti assume l’aspetto di un muoversi in avanti o indietro, da un “prima” a un “dopo”. Ecco il tempo, per Aristotele: la percezione di un prima e di un dopo nel flusso della vita. Un qualcosa del movimento che ha natura nettamente soggettiva. Che appartiene alla nostra percezione della realtà. Come sappiamo, per Aristotele la natura è movimento: abbiamo visto il mutare qualitativo di un corpo, o il suo muoversi nello spazio, il suo corrompersi o generarsi, ecc. L’esperienza ci mostra questo “movimento” dei corpi; il nostro cogliere il susseguirsi delle differenze fra un prima e un dopo dello “stato” di un corpo costituisce la coscienza della temporalità. Senza l’anima, la psyché (ψυχή) che effettua il “computo” (cioè che tiene conto) dei momenti successivi del movimento di un corpo (del suo mutamento), non ci sarebbe la nostra coscienza del tempo. Questa è la definizione del tempo data da Aristotele:

Il numero di un movimento rispetto al prima e al poi.

 

Fra i principi fondamentali del divenire ve n’è uno che costituisce una sorta di architrave di tutta la riflessione aristotelica su questo punto ed è il concetto di continuo. Esso è presente, infatti, in modo essenziale in tutti gli altri elementi del divenire (spazio, tempo, movimento). È proprio la continuità dello spazio, del tempo, del movimento che li rende concetti intrinsecamente non analizzabili. Analizzare, infatti, significa scomporre qualcosa nelle sue parti costituenti per studiarle separatamente. Ma, come abbiamo visto, il punto è una parte dello spazio, l’istante una parte del tempo, il punto di passaggio una parte del movimento. Solo le grandezze discrete, quelle grandezze che potremmo chiamare “granulari”, sono analizzabili nelle loro parti costituenti. Per usare facili riferimenti di matematica, i numeri naturali posso separarli uno dall’altro, non così i numeri reali. I primi, infatti, costituiscono un insieme discreto, i secondi un insieme continuo. Comprendere bene il concetto di continuità è una conditio sine qua non (una condizione necessaria, anche se non sufficiente) per comprendere il concetto di spazio in Aristotele. Aristotele è accurato nel distinguere i concetti l’uno dall’altro e, prima di parlare della continuità, vuole accertarsi che questa non sia confusa né con la consecutività né con la continguità. Vuole assicurarsi che a nessuno venga in mente di parlare di due istanti consecutivi di tempo o di due punti contigui di un segmento. Sono due errori capitali, frutto di fraintendimenti gravi della natura dello spazio e del tempo.

Cominciamo con la consecutività. Si dice consecutivo ciò che non ha alcun intermedio dello stesso suo genere tra se stesso e l’elemento di cui è consecutivo. I numeri naturali, ad esempio, godono della proprietà della consecutività: fra il 2 e il 3, infatti, non c’è alcun numero naturale. Per questo si dice che il 3 è il consecutivo del 2. E così il 25 lo è del 24, e così via. Anche le automobili in coda formano una fila di enti consecutivi. Un numero naturale ha, per definizione, un consecutivo. Come un numero intero. Non così un numero razionale. Fra due numeri razionali, infatti, ci sono infiniti numeri razionali. Per chi l’avesse dimenticato, i numeri razionali sono dati da rapporti fra interi, ad esempio 2/3, 16/11, 4/1, e così via. In generale un numero razionale ha la forma a/b, con a e b numeri interi e b ≠ 0. Perciò non si può parlare del consecutivo di un numero razionale senza mostrare una pacchiana ignoranza in matematica elementare. Infatti, se sono consecutivi due enti che non hanno alcun intermedio dello stesso genere fra loro interposto, due numeri razionali, che ne hanno invece infiniti (sempre, qualunque siano i numeri presi), non possono essere mai consecutivi. A maggior ragione non hanno consecutivi i numeri reali, cioè l’insieme dei numeri razionali e dei numeri irrazionali. Numeri irrazionali sono numeri che non possono essere scritti come rapporti fra interi. Numeri razionali e numeri reali non godono della proprietà della consecutività.

E vediamo ora la contiguità. Per Aristotele, contiguo è ciò che oltre a essere consecutivo è anche in contatto, ossia ciò le cui estremità si toccano. Deriva dal latino contingere, la cui radice è tangere, toccare. Come possiamo notare, viene conservata la condizione di consecutività (il non avere frapposto nessun altro ente dello stesso genere). La contiguità aggiunge il toccare, un’aggiunta decisiva per quando tratteremo, nel prossimo articolo, il concetto di spazio e di luogo.

E arriviamo finalmente alla nozione di continuità. Il continuo, syneches (συνεχής), ciò che è tenuto assieme, è una determinazione particolare del contiguo e si ha allorché i limiti di due cose, mediante i quali l’una e l’altra si toccano, diventano uno solo e medesimo. Due parti sono continue se hanno un confine in comune. Ciò che “svanisce” con la continuità, in forza del confine comune che le “parti” fra loro condividono, è proprio la possibilità di distinguere in essa delle parti. Una grandezza continua si dà sempre come un intero, come una grandezza unica, “non analizzabile”. Certamente posso ritagliare in essa delle parti, ma si tratta di interventi di sezionamento che non appartengono all’ente continuo in esame. Posso “isolare” un punto sull’asse reale (la retta che viene assunta come immagine dell’insieme dei numeri reali), ma si tratta di un’operazione che “sopraggiunge” all’insieme. L’asse reale non ha punti. Siamo noi che, con un’operazione di astrazione, li isoliamo. Si dice che un insieme è continuo, come lo sono i numeri reali, se non è discreto, se non è granulare, se posso separare gli “elementi” che lo costituiscono solo con operazioni di astrazione. Senza entrare in questo campo così complicato, affascinante, ma non essenziale per la comprensione della fisica aristotelica, diciamo che gli insiemi matematici di numeri godono di interessanti proprietà rispetto alla granularità e alla continuità. Numeri naturali, numeri interi, numeri razionali, numeri reali sono tutti insieme infiniti. Ma, i numeri naturali e i numeri interi sono insiemi infiniti discreti. I numeri razionali sono insiemi infiniti densi, ma non continui. I numeri reali, invece, sono insiemi infiniti continui.

Ma stiamo uscendo dal nostro tema. L’essenziale di quanto abbiamo detto su movimento, infinito, tempo, divenire, spazio, è il fatto che si tratta di processi continui, indisponibili a essere compresi nella loro essenza attraverso “assemblaggio” di loro supposte “parti statiche”: punti, istanti, ecc. Per ognuno di loro Aristotele offre una trattazione molto approfondita e sofisticata. Tra questi ho scelto di focalizzare l’attenzione sullo “spazio”, alla cui analisi sarà dedicata il prossimo articolo.

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