Ontologia e metafisica in Differenza e ripetizione di Deleuze – 8. Gigantomachia ontologica. Analogia versus Univocità

L’essenziale dell’analogia e dell’univocità

Abbiamo analizzato, nel saggio precedente, le pagine 43/45 di Differenza e ripetizione, dove Deleuze contrappone due concetti della differenza, quello secondo il quale la differenza è intermedia fra due stati dell’indifferenziato (l’indeterminato e il caotico), concetto proprio dell’impostazione analogica, e quello secondo il quale la differenza è il solo estremo, è, cioè, una differenza senza identità. Ora è il momento di entrare nello specifico della posizione teorica di Deleuze, per comprendere non solo in che modo il suo concetto di differenza si distingue da quello metafisico, ma anche come riesce a sfuggire, pur affermando l’univocità dell’essere, all’esito paradossale della posizione parmenidea. In sostanza si tratta di comprendere il senso di due affermazioni che Deleuze fa circa l’analogia e l’univocità dell’essere. In esse il filosofo francese intende determinare l’essenziale di queste due posizioni ontologiche.

L’essenziale dell’analogia si fonda su una certa complicità (nonostante la differenza di natura) tra le differenze generiche e specifiche: l’essere non può essere posto come un genere comune senza distruggere la ragione per la quale lo si pone così, vale a dire la possibilità di essere per le differenze specifiche. … Pertanto è inevitabile che l’analogia entri in una difficoltà senza uscita: nello stesso tempo, essa deve essenzialmente riferire l’essere a esistenti particolari, ma non può dire cosa costituisca la loro individualità.Infatti non considerando nel particolare se non ciò che è conforme al generale (forma e materia), essa cerca il principio di individuazione in questo o quell’elemento degli individui già costituiti. Al contrario, quando diciamo che l’essere univoco si riferisce essenzialmente ed immediatamente a fattori individuanti, non intendiamo individui costituiti nell’esperienza, ma ciò che opera in loro come principio trascendentale, principio plastico, anarchico e nomade. (DR, 56)

L’essenziale dell’univocità non è che l’Essere si dica in un solo e stesso senso, ma che si dica, in un solo e stesso senso, di tutte le sue differenze individuanti o modalità intrinseche. L’Essere è lo stesso per tutte queste modalità, ma queste modalità non sono le stesse, è “uguale” per tutte, ma esse non sono uguali, si dice in un solo senso di tutte, ma esse non hanno lo stesso senso. È proprio dell’essenza dell’essere univoco riferirsi a differenze individuanti, ma queste differenze non hanno la stessa essenza, e non variano l’essenza dell’essere – come il bianco si riferisce a intensità diverse, ma resta essenzialmente lo stesso bianco. Non ci sono due “vie”, come si era creduto nel poema di Parmenide, ma una sola “voce” dell’essere che si riferisce a tutti i suoi modi, i più diversi, i più vari, i più differenziati. L’essere si dice in un solo e stesso senso di tutto ciò di cui si dice, ma ciò di cui si dice differisce: si dice della differenza stessa. (DR, 53)

Mentre l’analogia entis è guidata dalla differenza specifica, a partire dalla quale costruisce tutto il suo impianto teorico, che si risolve nell’affermazione della realtà dell’essere, della sua trascendenza rispetto ai generi, della realtà delle differenze (generiche, specifiche e individuali) in quanto inscritte in un’identità presupposta e nell’affermazione della singolarità in quanto cosa determinata, l’univocità deleuziana basa il suo edificio teorico sulla differenza individuante, a partire dalla quale il filosofo nega il carattere ontico dell’essere (l’essere non è qualcosa di reale), ne afferma l’immanenza nelle differenze, nega anche che le differenze siano e afferma la singolarità in quanto differenziante della differenza, cioè come singolarità qualunque, come singolarità senza identità.

I quattro tipi di unità secondo Aristotele

Prima di procedere all’analisi di questo tema ricordiamo i quattro tipi di unità (ma anche di identità) che incontriamo nella Metafisica di Aristotele:

  1. Unità generica: è di tipo collettivo; le specie vi sono incluse. È divisibile, cioè dà luogo ad una molteplicità le cui determinazioni ricadono sotto lo stesso genere. Le parti in cui l’unità generica si divide sono le specie. Universale astratto. Es. il genere animale si divide in determinazioni (le specie, es. mammiferi, pesci, uccelli, ecc.) che sono ancora animali. La sua unità non è numerica perché le sue parti appartengono ancora al genere.
  2. Unità specifica: è di tipo collettivo; gli individui vi appartengono. È divisibile, perché le parti alle quali dà luogo ricadono sotto la stessa specie, ma tali parti, a loro volta, non sono più divisibili. Come il genere, dunque, la specie è un predicato comune, un universale, ma, a differenza del genere, essa dà luogo a determinazioni non ulteriormente divisibili, gli individui, appunto.
  3. Unità individuale: è di tipo numerico, cioè non divisibile perché le determinazioni alle quali dà luogo non ricadono sotto lo stesso individuo. La testa, le braccia, i piedi, ecc. (parti di un individuo) non sono a loro volta individui.
  4. Unità ontologica: è di tipo distributivo, non collettivo come il genere e la specie. Non è un predicato comune dei generi. Pertanto non è divisibile, anzi non è nemmeno una vera unità, ma una quasi-unità: i generi sono fra loro equivoci e solo analogicamente costituiscono un’unità. È a causa di ciò che ogni cosa è una compositio, un’unione, un sinolo inseparabile e tuttavia composto di parti diverse, la sostanza (o essere in senso proprio) e gli accidenti (essere in senso solo analogico).

Una determinazione è generica se si predica di una specie, cioè di un universale a sua volta divisibile (es. uomo di italiano nella frase l’italiano è uomo), è specifica se si predica di un individuo (es. uomo di Giovanni nella frase Giovanni è un uomo).  Osserviamo ora il seguente schema da cui risultano le differenze fra le diverse concezioni ontologiche:

  Essere Mondo Rapporti
Parmenide L’essere è Le differenze non sono Mera univocità
Gorgia L’essere non è Le differenze sono Mera equivocità
Aristotele L’essere è Le differenze “sono” Analogia
Deleuze L’essere non è Le differenze non sono Identità/differenza

 Che cos’è la determinazione per Deleuze? Punto preciso in cui il determinato mantiene il suo rapporto essenziale con l’indeterminato, linea rigorosa astratta che trova alimento nel chiaroscuro. (DR, 44) Da pag. 45 a pag.61 Deleuze mette a confronto la concezione analogica e quella dell’univocità, cercando di cogliere l’essenziale di entrambe le ontologie. Aristotele, Duns Scoto, Spinoza e Nietzsche sono i filosofi con i quali si intrattiene. Il bersaglio di Deleuze è la differenza specifica, centro focale di tutta la concezione analogica e in particolare il carattere ontico di questa differenza.

Già abbiamo visto come l’analogia rappresenti la soluzione ai problemi posti tanto dall’univocità parmenidea quanto dall’equivocità. Parmenide, in particolare, aveva negato l’essere alle differenze, affermando, nel contempo, che l’essere è identità. La metafisica successiva reagisce a questo esito paralizzante affermando che non solo l’essere ma anche le differenze sono. Tuttavia, il tratto comune di tutte le posizioni finora viste (univocità, equivocità, analogia) è la considerazione dell’essere come predicato. Per Deleuze, invece l’essere non è un predicato: le differenze non sono, l’Essere è differenza.

Critica del concetto di differenza in Aristotele

Deleuze entra subito in tema sottoponendo a una serrata critica il concetto di differenza affermato nella Metafisica di Aristotele. La differenza si distingue dalla diversità perché si dà sempre in rapporto a qualcosa di comune: le differenze individuali si danno sulla base di un’identità specifica, le differenze specifiche sulla base di un’identità generica, le differenze generiche sulla base di una quasi-identità ontologica. Ma questi tre tipi di differenze (tutte differenze ontiche, cioè differenze che sono enti) non sono differenze allo stesso modo. Aristotele si chiede quali fra queste rappresenti la differenza più grande e la più perfetta. Porsi questa domanda equivale, per il filosofo greco, a chiedersi quale di queste tre differenze costituisca un’opposizione, dato che l’opposizione è, in effetti, la differenza più grande. Tuttavia la domanda dev’essere meglio specificata, perché l’opposizione è un genere che comprende quattro specie: la correlazione, la contrarietà, la privazione e la contraddizione. Senza entrare nei dettagli della teoria aristotelica dell’opposizione, diciamo che solo la contrarietà permette a un soggetto di ricevere degli opposti rimanendo sostanzialmente lo stesso. La contrarietà, perciò, è la differenza perfetta. Se la differenza perfetta è la contrarietà, dobbiamo ancora distinguere fra due tipi di contrarietà, la contrarietà extra quidditatem, che è di natura accidentale ed estrinseca, separabile (differentia communis) o inseparabile (differentia propria) e la differentia essentialis, di tipo formale, perché tocca l’essenza, il che cos’è del concetto al quale si riferisce. Solo quest’ultima può reclamare lo stato di differenza massima: allora essa è la contrarietà nel genere e tale contrarietà è la differenza specifica.

La differenza specifica come differenza perfetta

È la specificazione (processo di differenziazione dell’identità), quindi, che gode di uno statuto speciale: né la generazione (produzione di generi), perché i generi non hanno fra loro nulla in comune e sono, pertanto, equivoci, ricavando la reciproca comunanza da un loro riferimento a un’unità di tipo particolare, né l’individuazione (produzione di individui), perché le differenze individuali sono particolarità accidentali, rappresentano differenziazioni adeguate. Se le differenze generiche sono troppo grandi, le differenze individuali sono troppo piccole. Gli individui sono affetti dalla doppia sinonimia del genere e della specie, in loro, quindi, prevale ciò che è comune, in rapporto al quale differiscono per mere peculiarità. Mentre il genere si definisce in modo molto spesso tautologico e l’individuo è addirittura indefinibile, come scrive Aristotele nel VII libro della Metafisica, solo la specie può essere propriamente definita, grazie alla combinazione ben dosata di identità e differenza (definitio fit per genus proximum et differentia specifica).

Dopo aver elencato tutti i caratteri che fanno della differenza specifica la differenza per eccellenza (riguarda l’essenza, quindi è formale ed essenziale e non materiale ed estrinseca, è qualitativa, sintetica, perché si aggiunge in atto al genere che la contiene solo in potenza, è causa formale, ecc.), Deleuze osserva che la differenza specifica è un genere di predicato veramente speciale, dal momento che opera in modo divisivo nei confronti del genere e costitutivo nei confronti della specie. Infine, diversamente dalle altre differenze (affezioni accidentali), che applicandosi a un genere non ne alterano l’essenza (un animale resta lo stesso animale sia che si muova sia che resti fermo) la differenza specifica aggiungendosi a un genere lo altera pur mantenendolo uguale, lo fa altro, senza tuttavia sottrarlo, perché la specie, costituita dalla differenza specifica, porta in sé e con sé il genere (la differenza ragionevole, aggiungendosi ad animale, lo fa altro).

Tutte queste considerazioni, che pur sono vere, bastano a fare della differenza specifica la più grande delle differenze? Oppure la scelta di Aristotele è guidata da ragioni diverse da quelle di un’oggettiva valutazione? Poniamo diversamente la domanda. Che cos’è che rende la differenza specifica la differenza più grande agli occhi di Aristotele? Il fatto che essa si riferisce a un’identità presupposta: la differenza specifica è la differenza nel genere, la differenza nel concetto. Se togliamo questo presupposto, questa ipoteca che impone la camicia di forza dell’identità alla differenza affinché questa possa essere, vediamo che la differenza generica, in realtà, è più grande di quella specifica. Anche la biologia mostra come i generi esibiscano fra loro differenze molto più grandi di quanto facciano le specie.

Ma Aristotele non cerca la differenza massima, ma la differenza perfetta. È tanto grande la differenza generica che egli vi vede il pericolo dell’equivocità, dell’assoluta eterogeneità dei generi fra di loro, pericolo al quale non può lasciarli esposti. Non può, tuttavia, nemmeno risolvere le differenze fra i generi allo stesso modo in cui aveva risolto la differenza fra le specie, ricorrendo, cioè, a un’identità pre-supposta, non può, in altri termini, affermare la genericità dell’essere senza distruggere tutto il complesso e armonioso edificio della differenziazione finora costruito.

Il problema teorico dell’analogia entis: l’essere non può essere un genere

L’essere, quindi, non è un genere, non è un concetto comune che raccoglie sotto di sé i vari generi, non è un predicato comune. Ma perché l’essere non può essere un genere, che cosa lo vieta, quali conseguenze avrebbe questo sulla natura delle differenze? Se le differenze fra i generi sono, cioè se le differenze hanno un essere e non sono mera illusione e semplice inganno, come sosteneva Parmenide, allora l’essere non può predicarsi di esse come il genere si predica delle specie; ma le differenze sono, i generi, infatti, sono fra loro differenti, non semplicemente diversi, l’essere, quindi, deve predicarsi di esse in un modo che non può non essere comune. Questo è, in sostanza, il problema teorico dell’analogia entis: evitare l’univocità dell’essere come genere comune e l’equivocità dei generi come alterità assolute. Vediamo separatamente i due problemi.

Dal momento che il genere non si attribuisce alle differenze specifiche, se vogliamo salvare le differenze l’essere non può essere un genere. Facciamo l’esempio della specie “uomo”, la cui definizione è quella di animale ragionevole: il genus proximum è quello di animale, la differentia specifica è quella di ragionevole. Ora è la ragionevolezza che costituisce la specie uomo all’interno del genere animale e la divide da ogni altra specie dello stesso genere. Ebbene il genere (l’animale) si dice della specie (l’uomo), ma non si dice della differenza specifica (la ragionevolezza). “L’uomo è un animale” lo possiamo dire, ma “la ragionevolezza è un animale” non lo possiamo dire. Il fatto che il genere si dica della specie ma non della differenza specifica è ciò che permette alla specie, da un lato, di mantenere il suo riferimento identico al genere, assicura, cioè, alla specie la sua identità, dall’altro, ne garantisce la specificità, il suo essere altra, non solo rispetto al genere, che essa, tuttavia, porta in sé, ma soprattutto rispetto alle specie dello stesso genere.

Vediamo ora che cosa succederebbe se l’essere fosse un genere. Se l’essere fosse un genere, le sue specie sarebbero i generi sommi o categorie. Ora, come abbiamo visto prima, il genere si attribuisce alle specie, quindi possiamo dire che le categorie sono, ma non si attribuisce alle differenze specifiche, a ciò che assicura, cioè, la differenza entro il genere. In altri termini, non possiamo dire che le differenze sono, allo stesso modo in cui non potevamo dire che la ragionevolezza è un animale. La genericità dell’essere, quindi, comporta l’insussistenza ontologica delle differenze. Per “salvare i fenomeni”, quindi, per affermare la grande ovvietà che le differenze, cioè le cose nella loro molteplicità e particolarità, sono, per non lasciare il mondo in preda alla sinonimia, l’essere non può essere un genere. Questo, tuttavia, non toglie che se l’essere non si può predicare univocamente delle differenze, esso debba per forza essere un predicato omonimo o equivoco, se non può essere identità debba essere alterità. La soluzione è quella dell’analogia entis.

Osserviamo, prima, che tutto questo ragionamento, indubbiamente rigoroso, ha un presupposto che è una mera assunzione di principio. Tale presupposto è che le differenze siano e, in particolare, che il modo d’essere della differenza in senso proprio sia quello della differenza specifica, il cui ruolo consiste non tanto nell’affermare la differenza in sé, quanto nell’inscrivere la differenza nell’identità del concetto indeterminato in generale. Che l’identità sia il presupposto della differenza non è solo un modo curioso di considerare la differenza in sé, ma è anche un modo illecito, dal momento che, come abbiamo visto, la differenza specifica non è in grado di rendere conto di tutte le singolarità (le differenze infinitamente grandi o quelle infinitamente piccole le sfuggono), ma solo di quelle singolarità giuste, proporzionate, misurate, sottomesse al lógos delle Specie. È un concetto di differenza molto greco, apollineo, misurato. Se questo è vero, allora il problema dell’essere come predicato (condizione essenziale affinché le differenze siano) non può trovare risoluzione se non obbedendo alla stessa esigenza, concependo, cioè, una qualche forma di identità presupposta anche per i generi. La differenza specifica (iscrizione della differenza nell’identità) guida, per molti aspetti, anche il concetto di differenza generica, assicura anche ai generi un lógos.

L’essere come quasi-identità

Anche l’essere dev’essere un predicato comune, dev’essere un’identità. Del senso analogico dell’essere e del suo essere un riferimento comune di ciò che altrimenti sarebbe meramente disperso ed equivoco abbiamo già parlato. Vediamo ora di precisare meglio il senso di questo speciale predicato comune esibendone le caratteristiche che lo differenziano dal genere.

Mentre il genere in rapporto alle proprie specie è collettivo e astrattivo, l’essere è, in rapporto alle categorie, distributivo e gerarchico. Il modello del genere è quello del concetto, il modello dell’essere è quello del giudizio. Come si forma un genere? Si prendono tutti gli enti che si assomigliano, che hanno, cioè, delle caratteristiche comuni e si raccolgono sotto un unico concetto (carattere collettivo del genere) dopo aver messo tra parentesi ciò che ognuno degli enti ha di peculiare (carattere astrattivo). Il modello dell’analogia, invece, è quello del giudizio. Nella Logica Kant definisce il giudizio:

Un giudizio è la rappresentazione dell’unità della coscienza di rappresentazioni diverse, ossia la rappresentazione del loro rapporto in quanto esse costituiscono un concetto. (I. Kant, Logica, Laterza, Bari, 1990, p. 93)

Ma, al di là di una definizione filosofica rigorosa, anche il concetto comune di giudizio ci può aiutare. Giudicare significa distinguere e valutare, due funzioni che Deleuze identifica come distribuzione (l’essere viene diviso fra i vari generi), alla quale presiede il senso comune, e come gerarchizzazione (ogni genere viene misurato in base al suo rapporto con l’essere), alla quale presiede il buon senso. L’essere ha un senso comune distributivo, non collettivo. Distribuire significa dividere una risorsa comune: pensiamo alla distribuzione del reddito in economia. Il reddito prodotto viene idealmente raccolto in un unico ammontare per essere poi ridistribuito a tutti i partecipanti della comunità (senso comune) secondo criteri di volta in volta diversi dettati da quello che è il buon senso politico del momento. Questo concetto di predicato comune, se riesce a sfuggire all’univocità generica, ne riproduce, tuttavia, i tratti, perché come scrive Deleuze:

Col proprio senso comune e il proprio senso primo, l’analogia del giudizio lascia sussistere l’identità di un concetto, sia sotto una forma implicita e confusa, sia sotto una forma virtuale. L’analogia è di per sé l’analogo dell’identità nel giudizio. … Ecco perché non ci si può aspettare dalla differenza generica o categoriale, e tanto meno dalla differenza specifica, che essa ci dia un concetto proprio della differenza. Mentre la differenza specifica si limita a inscrivere la differenza nell’identità del concetto indeterminato in generale, la differenza generica (distributiva e gerarchica) si limita a sua volta a inscrivere la differenza nella quasi-identità dei concetti determinabili più generali, vale a dire nell’analogia del giudizio stesso. (DR, 50-51)

Le due tesi fondamentali dell’univocità dell’essere

Per cogliere, almeno approssimativamente, il senso dell’univocità dell’essere affermata da Deleuze, dobbiamo prima dotarci di alcuni concetti essenziali e alquanto complessi, concetti che il filosofo francese ricava da quella tradizione filosofica che possiamo chiamare antimetafisica, che va da Parmenide sino a Heidegger. Nella metafisica non ci sono proposizioni ontologiche, perché in essa si parla dell’essere come qualcosa che è, cioè come un ente; le sue proposizioni, dunque, sono di tipo ontico, soprattutto là dove si pone come tema l’essere in quanto essere, cioè un tema ontologico in senso stretto. Questo perché la metafisica nasce contro l’univocità dell’essere, contro il detto iniziale dell’ontologia che afferma un senso unico dell’essere. In quanto pensatore originario, Parmenide apre il pensiero a tutte le sue possibilità: esti gàr eînai, nella sua solenne tautologia, è la prima affermazione ontologica, in cui è racchiuso sia il destino dell’onticizzazione dell’essere (la metafisica) sia l’appello dell’essere alla sua differenza con l’ente.

C’è sempre stata una sola proposizione ontologica: l’Essere è univoco. E c’è sempre stata una sola ontologia, quella di Duns Scoto, che assegna all’essere una voce unica. Si è fatto il nome di Duns Scoto, poiché egli seppe portare l’essere univoco al più alto grado di sottigliezza, a rischio di cadere nell’astrazione. Ma da Parmenide a Heidegger, è sempre la stessa voce a riproporsi, in un’eco che forma da sola tutto il dispiegarsi dell’univoco. Una sola voce suscita il clamore dell’essere. (DR, 52)

L’uso del termine “voce” per indicare l’essere è una metafora della quale Deleuze si serve in più punti della sua opera. Pur essendo chiaro il suo derivare dal termine univocitas, essa mantiene, tuttavia, una propria forza semantica che non dobbiamo ignorare. Credo sia giusto, quindi, tenerne conto nel nostro tentativo di comprendere il senso dell’essere secondo Deleuze, senza dimenticare, comunque, che di metafora si tratta. Ma non di una metafora qualunque. Infatti Differenza e ripetizione stessa si chiude proprio riprendendo la metafora della voce per indicare l’essere.

(Solo se si è raggiunto il punto estremo della differenza) è possibile una sola e stessa voce per tutto il multiplo dalle infinite vie, un solo e medesimo Oceano per tutte le gocce,  un solo clamore dell’essere per tutti gli essenti. Ma occorre che per ogni essente, per ogni goccia e in ogni via, si sia toccato lo stato di eccesso, cioè la differenza che li sposta e traveste, e li fa tornare, ruotando sulla sua mobile estremità. (DR, 388)

L’univocità dell’essere si impernia su due tesi fondamentali:

  • L’essere, pur univoco, non è indifferenziato, non è né indeterminato (informe) né caotico. Ci sono delle forme dell’essere, ma l’essere di tali forme non è quello ontico, le forme, le differenze non sono qualcosa, perché il qualcosa è già opera della differenza, è il differenziato, mentre la differenza può essere colta propriamente solo come il differenziante. Mentre l’analogia entis, pur negando che l’essere fosse un genere, ne sosteneva la realtà e lo affermava come identità, sostenendo nel contempo la realtà delle categorie in quanto generi, l’univocità afferma, invece, l’esserci delle forme dell’essere, ma queste, a differenza delle categorie o generi, non sono enti differenziati, non comportano, cioè, la divisione dell’essere in regioni, ma sono differenzianti. Tali forme dell’essere sono differenze reali ma non numeriche, cioè il loro senso è diverso (ognuna ha un senso proprio e irriducibile a quello delle altre) ma non dividono l’essere in una pluralità di sensi. Sono, appunto, forme dell’essere e non enti (sono dunque un ni-ente ontico) perché sono distinte formalmente e non numericamente. Questa prima tesi, dunque, si basa sull’assunto che la differenza reale non è mai una differenza numerica, ma sempre una differenza formale.
  • L’essere univoco distinto formalmente si dice di una molteplicità di singolarità o differenze individuanti che si ripartiscono nelle forme in modo diverso da come le specie si rapportano ai generi, perché, a differenza di queste ultime, il cui status ontologico (o rapporto con l’essere) è mediato appunto dal genere, cioè dal concetto al quale appartengono, queste singolarità, che sono molteplici, cioè numericamente distinte, si rapportano direttamente all’essere univoco. Come la prima tesi affermava il paradosso metafisico che la differenza reale non è una differenza numerica, così questa tesi si regge su un altro paradosso, speculare al primo, quello che la differenza numerica non è una differenza reale, ma una differenza modale.

Riconosciamo, senza difficoltà, in questa paradossale ontologia la grande concezione di Spinoza di un’unica sostanza formalmente divisa negli attributi (le forme dell’essere) e individuata nei modi (le singolarità o particolarità della sostanza), alla quale lo stesso Deleuze si richiama esplicitamente.

…gli attributi sono irriducibili a generi o a categorie, perché sono formalmente  distinti, ma tutti uguali e ontologicamente uno, e non introducono alcuna divisione nella sostanza che si esprime o si dice attraverso di loro in un solo e stesso senso (in altri termini la distinzione reale fra attributi è una distinzione formale e non numerica); … d’altronde i modi sono irriducibili a specie, in quanto si ripartiscono negli attributi secondo differenze individuanti che si esercitano in intensità come gradi di potenza, che li relazionano immediatamente all’essere univoco (in altri termini, la distinzione numerica tra “essenti” è una distinzione modale e non reale). (DR, 387)

Naturalmente Deleuze non è Spinoza, perché l’essere come sostanza, (sia pur divisa in attributi e modi, anziché in generi e specie) rappresenta ancora una pesante ipoteca metafisica. Decisivo sarà, come vedremo, l’apporto di Nietzsche e un certo modo di intendere l’idea. Tuttavia, il filosofo olandese costituisce un punto di riferimento obbligato per entrare nello specifico del pensiero di Deleuze.

Duns Scoto e la neutralizzazione dell’essere univoco

Prima ancora, tuttavia, è necessario fare riferimento a Duns Scoto, che per primo ha sostenuto, contro il tomismo, l’univocità dell’essere e ha elaborato i concetti di differenza formale e modale. Tali concetti si trovano nell’ Opus Oxoniense, che Deleuze definisce il libro più straordinario dell’ontologia pura. Già sappiamo che, per Scoto, l’univocità dell’essere è un’esigenza fondamentale per la conoscenza di Dio: solo se l’essere si dice in un solo senso noi possiamo conoscere anche l’essere di Dio, altrimenti questo rimarrà sempre estraneo e Dio sarà ineffabile e impensabile, di lui potremo parlare solo per negazioni (teologia apofatica). Ma l’essere univoco non apre solo alla possibilità di conoscere Dio, esso rappresenta anche un pericolo per la visione cristiana, perché implicito vi è il panteismo (se Dio è l’essere in quanto tale e l’essere si dice in un solo e stesso senso, allora tutto è Dio, la stessa molteplicità del mondo è apparente, perché le cose sarebbero aspetti di Dio), si ripropone, cioè, a livello teologico lo stesso paradosso che si era posto a livello ontologico con l’eleatismo: dove tutto era essere, ora tutto è Dio.

Per fronteggiare questo pericolo Scoto neutralizza l’essere univoco, lo rende cioè indifferente tanto all’universale quanto al singolare (tanto all’identità quanto alla differenza). Neutralità, tuttavia, non significa indifferenza nel senso in cui abbiamo già considerato questo concetto, cioè indeterminatezza e caos, ma significa non ripugnanza, cioè capacità di assumere, interamente, l’universalità della quidditas o la singolarità dell’haecceitas. L’essere non è fondamento ma, in certa misura, apertura. Ciò che, tuttavia, è importante ai fini del nostro discorso, sono i due tipi di differenza che Scoto elabora, proprio allo scopo di riferire la differenza all’essere neutro. Leggiamo Deleuze:

La distinzione formale è sì una distinzione reale, poiché è fondata nell’essere o nella cosa, ma non è necessariamente una distinzione numerica, poiché si stabilisce tra essenze o sensi, tra “ragioni formali” che possono lasciar sussistere l’unità del soggetto a cui li si attribuisce. Così … Dio può possedere attributi univoci formalmente distinti senza perdere nulla della sua unità. …La distinzione  modale si stabilisce tra l’essere o gli attributi da una parte e, dall’altra, le variazioni intensive di cui sono capaci. Tali variazioni, non diversamente dalle gradazioni del bianco, sono modalità individuanti. (DR, 57-58)

Spinoza: sostanza, attributi, modi. Una filosofia dell’espressione

È con Spinoza che il problema della differenza formale mostra tutta la sua importanza, perché vi è il vero rovesciamento della posizione metafisica:

Gli attributi si comportano realmente come sensi qualitativamente differenti, che si riferiscono alla sostanza come ad un solo e medesimo designato; questa sostanza a sua volta si comporta come un senso ontologicamente uno in rapporto ai modi che la esprimono, e che sono in essa come fattori individuanti o gradi intrinseci intensi. (DR, 58)

Gli attributi e i modi trovano all’inizio dell’ Etica la loro definizione:

  • Eth., I, def. 4. Per attributo intendo ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come costituente la sua stessa essenza.

  • Eth., I, def. 5. Per modo intendo le affezioni della sostanza, ossia ciò che è in altro per mezzo del quale è anche concepito. (Ethica more geometrico demonstrata)

Secondo Spinoza, gli attributi della sostanza divina sono infiniti e sono espressioni di tale sostanza. Noi, però, ne conosciamo solo due: il pensiero e l’estensione (e qui il filosofo olandese è figlio dell’epoca cartesiana). Ciascuno di essi è infinito come la sostanza di cui è attributo. I modi, invece, sono gli esseri particolari cioè le determinazioni (e quindi limitazioni) degli attributi. Ad esempio, un corpo è un modo della sostanza in quanto estesa, mentre un pensiero è un modo (una particolarizzazione) della sostanza in quanto pensante. Fra attributi e modi vi è questa differenza: i primi sono la sostanza, i secondi, invece, sono nella sostanza. Ogni attributo è, in quanto tale, coestensivo alla sostanza e perciò deve stare con essa in un rapporto di identità; i modi invece emanerebbero direttamente dalla sostanza entro l’ambito di un attributo, in quanto variazioni intensive di tale attributo.

In base a ciò possiamo cominciare a intendere in che modo la differenza formale è una differenza reale non numerica. Vediamo il problema. La sostanza è una ed è dotata di infiniti attributi. Ora, ognuno di questi attributi ha una definizione propria, irriducibile a quella di ogni altro. Se tali definizioni ritagliassero tante regioni nella sostanza quanti sono gli attributi, allora la sostanza non sarebbe più una ma molteplice, se invece fossero mere distinzioni che noi operiamo con la ragione senza alcun fondamento nella cosa allora gli attributi non sarebbero reali. Dall’impasse si può uscire solo intendendo l’attributo non come una forma nella sostanza, ma come una forma della sostanza: la sostanza non è divisa in attributi, ma si esprime negli attributi e in ogni attributo si esprime interamente. La sostanza si esprime nell’attributo, l’attributo non manifesta la sostanza come una copia, cioè secondo rappresentazione, ma è la sostanza stessa, la sua stessa espressione.

La differenza reale non può che essere formale se non si vuole rompere l’unità della sostanza, unità che non è quella numerica. Ora, se l’unità numerica è l’unità propria del sussistente, dell’essente, è chiaro che l’essere, dotato di unità non numerica non può essere inteso come un sussistente. Se gli attributi sono la sostanza stessa, i modi invece sono le gradazioni intensive degli attributi, cioè della sostanza stessa. Qui il problema è inverso a quello precedente. I modi sono differenze numeriche, cioè individuanti, non formali (riguardano una gradazione dell’essenza, non una sua trasformazione, non riguardano l’essenza in quanto tale), tuttavia non sono reali ma modali. I fattori individuanti sono modalità della sostanza nell’ambito di un attributo. Non possono essere differenze reali perché altrimenti la sostanza verrebbe infinitamente divisa da questi fattori individuanti, ognuno dei quali costituirebbe un atomo sostanziale, ricadendo così nella considerazione del differenziato e non del differenziante. Se è vero che la differenza numerica, nell’ambito del differenziato mette capo sempre a una differenza reale, cioè a un sussistente, è chiaro che anche per i modi non si può parlare di enti sussistenti.

Spinoza, insomma, e prima di lui Scoto, rompono il nesso fra unità numerica e sussistenza su cui si basa la differenza reale in senso metafisico, che è la differenza ontica o empirica o differenza fra enti. Sostanza, attributi e modi non sono enti: la sostanza non è l’essere sostanziale di Aristotele, gli attributi non sono i generi onticamente determinati (quindi numericamente e realmente distinti, cioè equivoci), i modi non sono le specie, cioè differenze interne all’identità, il cui rapporto con l’essere, è sempre mediato dal genere, dall’identità a cui devono preliminarmente appartenere. I modi invece sono immediatamente rapportati all’essere univoco. Per questo la posizione dell’univocità apre la considerazione dell’essere alla vera domanda ontologica, cioè all’essere come non-ente (non-determinato), all’essere come differente (il determinante o differenziante).

Nietzsche: l’Eterno Ritorno e l’autentico significato della ripetizione

È con Nietzsche che l’univocità aperta da Parmenide, pensata da Scoto, affermata da Spinoza, si realizza e questo grazie alla teoria dell’Eterno Ritorno, almeno nel modo in cui la interpreta Deleuze.

Ritornare è dunque la sola identità, … , l’identità della differenza, l’identico che si dice del differente che gravita attorno al differente. Una siffatta identità, prodotta dalla differenza, si determina come “ripetizione”. … Ritorna solo ciò che è estremo, eccessivo, ciò che passa nell’altro e diviene identico. … È l’essere-uguale di tutto ciò che è ineguale e che ha saputo realizzare pienamente la propria diseguaglianza. (DR, 59-60)

Ritorna il concetto di ripetizione nel senso in cui ne abbiamo già parlato: ripetere significa porre la differenza, perché si ripete solo ciò che ha la forza di affermare la propria differenza e differisce solo ciò che nella differenza ha la forza di ripetersi.

 

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