Linguaggio e filosofia in Walter Benjamin. 7 – Conclusione. La facoltà mimetica e la parola come idea

La fisiognomica

La fisiognomica è l’arte di leggere l’interno dell’uomo – comunque inteso (idea, anima, carattere, predisposizione, stato d’animo, passione, affetto, ecc.) – in base al suo esterno (struttura del volto e del corpo, mimica, gesti, comportamenti, ecc.). Si basa, quindi, non tanto sul linguaggio esplicito – quello verbale, informativo, tanto per intendersi – bensì sulla caratteristica lingua muta dell’espressione, che parla in modo immediato dalla sua figura e dai suoi gesti. L’idea che si possano indagare i segreti dell’uomo non solo indipendentemente, ma addirittura contro la sua propria autocomprensione, è un’idea antichissima, le cui origini si perdono nei miti dell’alba dell’umanità. Il primo sistematore antico della fisiognomica fu Aristotele (Analitici primi, II, 27, 70b 7), cui tutti i successivi fisiognomi, per lo meno fino a Lavater, devono qualcosa.

La fisiognomica rappresenta il punto di riferimento essenziale per la comprensione del saggio Sulla facoltà mimetica, al cui centro si colloca il concetto, in sé paradossale, di somiglianza immateriale (unsinnliche Ähnlichkeit). Tale concetto fonda i nessi originari fra lingua e mondo, fra lingue differenti, fra luoghi temporalmente e spazialmente diversi della medesima lingua e, infine, fra lingua parlata e lingua scritta.

La facoltà mimetica

La capacità di cogliere somiglianze è una caratteristica dell’uomo: è la sua facoltà mimetica, una facoltà innata, propriamente fisiognomica, che si attiva nell’attimo della percezione:

La percezione della somiglianza è in ogni caso legata al balenare di un attimo. Essa passa di sfuggita, può essere forse ripresa, ma non può propriamente venire fissata come le altre percezioni. Si offre allo sguardo in modo altrettanto fuggevole e momentaneo di una costellazione celeste. (W. Benjamin, Gesammelte Schriften, Abgeschlossene Schriften. Band I-IV, Band II, Metaphysisch-geschichtsphilosophische Studien, Erste Fassung: Lehre vom Ähnlichen, p. 206)

La produzione della somiglianza da parte dell’uomo – come la percezione che egli ne ha – è affidata, in molti casi, e soprattutto nei più importanti, a un baleno. Essa guizza via. Non è improbabile che la rapidità dello scrivere e del leggere rafforzi la fusione del semiotico e del mimetico nell’ambito della lingua. (W. Benjamin, Sulla facoltà mimetica, in Angelus novus, Einaudi, Torino, 1962, p. 73-74)

Per Benjamin l’uomo primitivo, come il fanciullo, che ancora non hanno un linguaggio verbale proprio, possiedono tuttavia, in grado estremamente sviluppato la facoltà di cogliere somiglianze materiali e, su questa base, imitano, cioè riproducono materialmente, con il proprio stesso corpo, con la voce, i gesti, i movimenti, le cose del mondo, gli animali, i fenomeni materiali.

Filogenesi e ontogenesi della facoltà mimetica

Tutte le funzioni superiori dell’uomo sono condizionate dalla facoltà mimetica, la quale ha una sua storia, un’evoluzione, che riguarda, da un lato, l’individuo e, dall’altro, l’umanità. In rapporto allo sviluppo individuale, fondamentale è il gioco infantile visto, nella sua essenza, come un insieme inesauribile di comportamenti mimetici, imitativi: non solo di persone e di ruoli umani, ma anche di cose e di oggetti del mondo. Ma è soprattutto a livello filogenetico che la facoltà mimetica esercita un ruolo fondamentale. Negli stadi primitivi dell’umanità tanto il microcosmo quanto il macrocosmo erano fonti, sorgenti inesauribili di somiglianze, di corrispondenze naturali, di stimoli in continua evoluzione e trasformazione per la facoltà mimetica dell’uomo.

L’evoluzione ha comportato, tuttavia, un progressivo indebolimento della facoltà mimetica, fino a lasciare il mondo percettivo dell’uomo moderno fortemente impoverito di quelle corrispondenze e analogie magiche che erano così familiari ai popoli antichi. Ma tale facoltà è decaduta o si è, invece, trasformata? L’astrologia – dice Benjamin – ci può aiutare a comprendere qualcosa della natura stessa della percezione della somiglianza da parte dell’uomo, dato che nei tempi più antichi anche i fenomeni celesti erano considerati imitabili.

Nelle danze, in altre operazioni cultuali, si poteva produrre un’imitazione e utilizzare una somiglianza del genere. E se il genio mimetico era veramente una forza determinante della vita degli antichi, non è difficile immaginare che il neonato doveva essere concepito nel pieno possesso di questa facoltà e, in particolare, in uno stato di perfetta adeguazione alla configurazione attuale del cosmo. (W. Benjamin, Sulla facoltà mimetica, cit., p. 72)

Linguaggio e facoltà mimetica

Questo stadio primitivo, mitico, della somiglianza viene superato con l’avvento del linguaggio propriamente detto. Le energie mimetiche si trasferiscono dalla produzione di somiglianze materiali alla produzione di somiglianze immateriali, e ciò avviene proprio nel medium della lingua, che riassorbe in sé tali energie. La lingua umana mantiene con il mondo un rapporto spontaneamente ricettivo e la traduzione in essa dell’espressione delle cose è garantita dalla facoltà mimetica, cioè dalla innata sensibilità fisiognomica dell’uomo per le varie forme di espressione. Grazie a tale potenza medianica, tra mondo e linguaggio viene a stabilirsi un rapporto di somiglianza immateriale, che consente di considerare il linguaggio alla stregua di un ricettacolo mimetico del mondo.

Se, da un lato, il concetto di somiglianza immateriale permette a Benjamin di sottolineare ancora che il linguaggio non è affatto un sistema convenzionale di segni applicato strumentalmente al mondo, dall’altro, esso va distinto nettamente dalle ipotesi che, anche nel caso della lingua, si basano sulla materialità della somiglianza, vale a dire da quelle concezioni onomatopeiche e figurative della lingua che la intendono come diretta riproduzione imitativa materiale del mondo.

La somiglianza immateriale

Ordinando parole di diverse lingue che significano la stessa cosa, intorno a quel significato come al loro centro, bisognerebbe indagare come esse tutte – che possono spesso non avere fra loro alcuna somiglianza – sono simili a quel significato nel loro centro. (W. Benjamin, Sulla facoltà mimetica, cit., p. 73).

somiglianza immateriale

Figura 1 – La somiglianza immateriale

Tutte le lingue, per Benjamin, hanno col mondo uno specifico rapporto di affinità spirituale intensiva (somiglianza immateriale), cioè né lo producono strumentalmente come segno, né lo riproducono in termini puramente imitativi materiali, bensì lo traducono, lo incorporano e lo rielaborano secondo la logica della facoltà mimetica, in un medium materiale caratteristico, ricco di energie espressive proprie.

rapporto lingua mondo

Figura 2 – Il rapporto lingua mondo

La lingua come archivio di somiglianze immateriali

In questa prospettiva, la lingua storica è memoria materiale sedimentata e stratificata delle sue origini mimetico-espressive, è, cioè, l’archivio più compiuto delle somiglianze immateriali. In modo particolare la scrittura è diventata un archivio di corrispondenze non sensibili. Come nel caso individuale la grafia è un rebus che contiene le immagini inconsce dello scrivente, così, a livello storico-collettivo, e fatte le debite trasposizioni, le scritture e i linguaggi, quali media espressivi-mimetici, contengono le immagini collettive inconsce originate dalle varie modalità storiche umane di traduzione del mondo nel linguaggio. Questo lato “magico” del linguaggio storico, che convive con il lato profano, semiotico, senza poter essere con esso immediatamente identificato, è l’oggetto della lettura filologica. Il filologo, memore di modalità arcaiche di lettura, legge in termini magici le scritture della storia, rovistando nell’immane archivio di memorie e di immagini che esse di fatto sono, tentando di evocarne le riposte energie espressive.

Questo lato della lingua come della scrittura non corre isolato accanto all’altro, e cioè a quello semiotico. Tutto ciò che è mimetico nel linguaggio può invece – come la fiamma – rivelarsi solo in una sorta di sostegno. Questo sostegno è l’elemento semiotico.Così il nesso significativo delle parole e delle proposizioni è il portatore in cui solo, in un baleno, si accende la somiglianza. […] “Leggere ciò che non è mai stato scritto”. Questa lettura è la più antica: quella anteriore ad ogni lingua – dalle viscere, dalle stelle o dalle danze. Più tardi si affermarono anelli intermedi di una nuova lettura, rune e geroglifici. […] Così la lingua sarebbe lo stadio supremo del comportamento mimetico e il più perfetto archivio di somiglianze immateriali: un mezzo in cui emigrarono senza residui le più antiche forse di produzione e ricezione mimetica, fino a liquidare quelle della magia. (W. Benjamin, Sulla facoltà mimetica, cit., p. 73)

Carattere a-intenzionale della verità

La verità non è esterna al mondo e non può dunque contrarre alcuna relazione con esso: verità e mondo sono infatti non due, ma uno soltanto. Le idee appaiono così interne agli stessi fenomeni, mentre la verità si definisce come il contenuto del mondo. Le idee sono costellazioni di elementi fenomenici. La Vorrede pensa contro la teoria platonica dei due mondi. La rappresentazione delle idee nel medium dell’empiria sarebbe impossibile se l’empiria fosse semplicemente la sfera altra dall’essere e dalla verità. Anschauung e Benennung, nel loro essere Urvernehmen, percezione e apprensione originaria della rappresentazione oggettiva della verità, si costituiscono in primo luogo come negazione dell’accesso soggettivistico e intenzionale alle modalità di espressione dell’idea.

Qui sta anche il senso della critica portata a quella concezione dell’intuizione, della visione, intesa come intellektuelle Anschauung, strettamente imparentata con la visione mistica della verità e dell’idea. Il filosofo non deve assolutamente perseguire una presentazione intuitiva di immagini della verità. Tanto come intuizione intellettuale, quanto come visione mistica, l’Anschauung altro non sarebbe che la massima esplicazione di una pretesa di accesso immediato alla verità, indipendentemente dalle sue specifiche modalità di rappresentazione, e quindi affatto non-ricettivo. La visione mistica non è che l’opposto speculare dell’accesso soggettivistico e intenzionale alla verità propria alla conoscenza non filosofica.

Verità e idea non sono da intendersi come il prodotto di una rappresentazione (Vorstellung) da parte del soggetto che osserva o che legge, ma si trovano di volta in volta già rappresentate, già espresse nei tratti del volto di qualsiasi fenomeno, la cui dimensione rappresentativa ed espressiva il soggetto può soltanto apprendere. In ogni fenomeno originario, la verità e l’idea non sono poste da un soggetto, bensì giungono da sé obiettivamente a rappresentazione e, come tali, si offrono all’apprensione o alla nominazione.

Le idee sono originariamente un che di già dato. Non sono nel modo più assoluto qualcosa di prodotto da una qualsivoglia azione intellettuale da parte dell’uomo. Non sono concetti, frutto intenzionale di un’astrazione soggettiva. La verità è la morte dell’intenzione. L’oggetto della conoscenza, in quanto oggetto determinato nell’intenzione concettuale, non è la verità. La verità non può essere disvelata, poiché è sempre e soltanto essa che si rivela. Al cospetto della verità anche il più puro fuoco della ricerca si spegne, come sott’acqua.

Il nome come luogo della verità

Per esprimersi, la verità esige un essere che, per la sua estraneità all’intenzione, somigli a quello puro e semplice delle cose, un essere materiale, dotato di sonorità e figura, che sia in grado di accogliere spontaneamente e ricettivamente la sua lingua: questo essere è il nome. Proprio nel suo medium accade il tramonto dell’intenzione soggettivistica nel Vernehmen soggettivo.

La ricezione della verità avviene in origine nella lingua vera dei nomi, ma, dopo la caduta, un qualsiasi fenomeno, pur nella sua storicità e frammentazione, torna ad acquistare un carattere originario non appena si offre alla considerazione filosofica non nella sua chiusa fatticità, prigioniera della storia, ma in quanto frammento espressivo che conserva memoria e traccia della rappresentazione oggettiva dell’idea. La dottrina delle idee della Premessa in realtà è una dottrina del nome. È il nome il medium metodologico entro il quale di spiegano e si dispiegano entrambi i lati della Darstellung.

Linguisticità dell’idea

L’idea è un che di linguistico e in questa sua linguisticità l’essenza spirituale originariamente si esprime allo scopo di venire accolta nella lingua umana che la traduce in sé. Per il filosofo che intende esporla, la verità riposa già nell’intenzione dei linguaggi: essa si è già espressa ed è già stata accolta nella lingua. Ogni lingua, in tal modo, è anche simbolo e compito del filosofo è ripristinare nel suo primato, mediante la Darstellung, il carattere simbolico della parola. Tale operazione, rifiutando la via mistica al linguaggio, deve limitarsi, come nel caso del traduttore, a lavorare con frammenti storici di linguaggio, affini nel loro comune riferimento alla lingua vera.

L’abilità fisiognomica del filosofo sta, da un lato, nel riconoscere il momento propriamente espressivo presente nel dato fenomenico, anche del più minuto, e, dall’altro, nel comporre e nell’esporre i vari tratti espressivi fenomenici, in modo tale da ricreare entro la scrittura quel luogo simbolico. L’idea, pur partecipando della generale linguisticità dell’essere, tuttavia non possiede già di per sé, come vorrebbe la via mistica al linguaggio, una parola originaria assimilabile a quella umana. Solo l’uomo ha la possibilità di nominare l’idea. Senza l’uomo l’espressione dell’idea, pur mantenendo l’idea intatta la sua consistenza ontologica, non avrebbe efficacia linguistica. Nella contemplazione filosofica si libera l’idea in quanto parola.

Adamo, primo filosofo

Ma il primo ad assumere questo atteggiamento non è Platone, bensì Adamo, vero padre della filosofia e della fisiognomica, cioè dell’uso essenzialmente morfologico dello sguardo: non c’è nominazione senza percezione della lingua espressiva in cui si rappresenta l’essenza spirituale, l’idea, delle cose, non c’è percezione della lingua espressiva delle cose che non abbia il suo compimento nella nominazione.

Termine chiave del capitolo è Urvernehmen (apprensione originaria, non interrogazione originaria, come è tradotto nell’edizione italiana): spontanea ricettività propria sia della lingua che dello sguardo adamitico, capaci entrambi di tradurre compiutamente nel medium della lingua e delle forme umane l’espressione linguistica e formale dell’essenza delle cose. La filosofia si avvicina ai nomi senza intenzione, non è essa ad attribuire i nomi, ma si limita ad apprenderli.

All’apprensione originaria è estranea qualsiasi intenzione appropriativa ed essa si dà in quel medium originario, al tempo stesso apprendente, ricettivo e percettivo, espressione soggettiva, eppure estranea al soggettivismo dell’intenzione, che è il nome. La perfetta corrispondenza simbolica fra le idee che si danno, estranee all’intenzione nel nominare, e l’Urvernehmen umano in cui le parole possiedono la loro intatta nobiltà denominativa, è cosa esclusiva di uno stadio paradisiaco del linguaggio, non ancora costretto a lottare col significato storico, empirico. Al puro denominare adamitico è subentrato l’arbitrio dei giudizi astratti. Eppure, sotto l’incrostazione dei significati, dentro il corpo profano delle parole storiche, albergano ancora le tracce mnemoniche del nome adamitico. Soltanto lavorando su e con i materiali storicamente dati del linguaggio, è possibile circoscrivere il luogo simbolico della verità.

La Darstellung filosofica

La Darstellung filosofica è un lavoro ermeneutico su e con la memoria concreta della lingua, è filologia in senso essenziale. La produzione di nuovi termini, che vorrebbe assumere in proprio la simbolicità intrinseca del linguaggio, altro non è che un denominare non riuscito, a cui partecipa l’intenzione più che la lingua, un denominare determinato esclusivamente dal soggetto, incarnazione postuma del peccato originale, che abbandona lo statuto essenzialmente traducente, vernehmend, non soggettivistico e a-intenzionale della Darstellung. Perciò la filosofia è una lotta per la Darstellung di poche, singole parole, che sono sempre di nuovo le stesse, le idee.

Le costellazioni di idee

All’ideale della continuità, che è l’ideale volgare della scienza, e si basa sulla presunzione di impadronirsi della verità abbracciando il tutto enciclopedico delle conoscenze, Benjamin contrappone l’ideale della discontinuità, che si ispira alla costituzione stessa del mondo delle idee, che è contrassegnato da una particolare struttura discontinua. Ogni idea è un sole che si rapporta con ogni altra in termini inevitabilmente discontinui. Se la filosofia vuole realmente essere un’esposizione mimetica delle idee, cioè una descrizione rappresentativa del loro mondo, essa deve accogliere in sé un’analoga discontinuità. Le idee sono una virtuale coordinazione oggettiva dei fenomeni o, piuttosto, dei loro elementi. Sussumere i fenomeni sotto di sé, classificarli entro una rete rappresentativa prodotta ad hoc è compito del concetto, non dell’idea.

Le idee intrattengono con le cose un rapporto simile a quello che c’è fra le figure delle costellazioni e le stelle: non sono, quindi, né concetti né leggi delle cose. Come nella costellazione visibile dei tratti di un volto, il carattere invisibile – che ne è coordinazione oggettiva – mantenendo tuttavia la sua invisibilità, acquista una fisionomia visibile e diviene passionalità, espansività, sensibilità, ecc., così, in quanto oggettiva coordinazione di alcune fra le molte stelle del firmamento, la figura della costellazione, pur mantenendo la sua effettiva invisibilità, acquista, per chi è in grado di coglierla – cioè di leggere la scrittura del cielo – una sua fisionomia visibile: diviene scorpione, bilancia, ecc.. Lette come punti entro simili figure puramente virtuali, le stelle – gli elementi fenomenici – vengono spostate dai loro contesti reali e trasposte in un contesto – la costellazione, che per quanto direttamente invisibile, le rappresenta intensivamente, facendo sì che esse diventino ben più che semplici stelle, siano, cioè, salvate.

 

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