Linguaggio e filosofia in Walter Benjamin – 3 – Metafisica del nome

Il nome come principio gerarchico e ordinatore delle lingue

Come abbiamo visto, Benjamin accorda un privilegio indiscutibile al nome in quanto intima essenza della lingua, tanto che la sua filosofia del linguaggio può essere definita una vera e propria metafisica del nome, ricca di implicazioni teoriche che è utile esaminare brevemente. Tra queste la più notevole è l’ affermazione di una concezione gerarchica della lingua. Ogni ente, si può dire, ha la propria lingua, ma ognuna di queste differisce dalle altre non per natura, ma per grado, determinato dalla minore o maggiore vicinanza al vertice supremo, inattingibile, costituito dalla creatrice lingua divina. Fra tutte solo la parola umana, almeno nella forma della pura lingua denominante di Adamo, è riflesso del verbo divino.

Questo privilegio accordato al nome fa poi del nome stesso un principio di ordinamento delle lingue. Benjamin, fortemente influenzato da teorie simboliste, concepisce il mondo come un intricato sistema di corrispondenze, di somiglianze materiali, che solo il nominare dell’uomo, nella sua comunione con il verbo creatore di Dio, sottrae al caos. Allorché il nome degenererà in segno, anche l’ordine del mondo verrà sconvolto e le cose parleranno una lingua incomprensibile o verranno ridotte al mutismo.

Nella metafisica del nome vi è, infine, l’affermazione del carattere ontologico del rapporto linguistico uomo-mondo. La lingua adamitica è apertura originaria, precedente ogni concettualizzazione e ogni giudizio. Quando l’uomo pretenderà che le parole siano innanzitutto funzionali all’informazione, riducendosi a strumenti capaci di sottomettere il mondo al suo giudizio, accederà a quel tipo di conoscenza che Benjamin chiamerà senza nome, funzionale, strumentale, classificatoria.

Lingua materiale delle cose e nominazione

La differenza fra l’uomo e il mondo, considerata nella prospettiva della lingua, consiste nel fatto che l’essenza delle cose non si comunica interamente, come avviene per l’uomo, nell’espressione. La lingua delle cose, priva di parole, non può che comunicarsi nel nome che l’uomo dà a esse e solo perché vi è un essere che è, nella sua essenza, interamente linguistico,  le cose si possono comunicare.

Una cosa è immediatamente manifestazione della propria essenza. Ciò che viene alla presenza è la cosa stessa, non una sua rappresentazione. Quando percepisco una mela, non percepisco una sostanza generica, a cui ineriscono degli accidenti, né, tantomeno, percepisco delle sensazioni che ricompongo, poi, nella cosa “mela” attraverso processi associazionistici soggettivi. Entrambe queste concezioni si collocano all’interno della teoria della conoscenza come rappresentazione, impigliandosi nella classica aporia dell’adeguazione di interno ed esterno, di pensiero o parola e cosa.

Tuttavia Benjamin sostiene che la lingua delle cose non manifesta interamente le cose stesse. Tale affermazione sembra potersi avvicinare, fatte le debite differenze, alla posizione fenomenologica, secondo la quale all’essere delle cose appartiene essenzialmente l’accadere secondo prospettive, che non sono punti di vista del soggetto, ma dell’essere stesso. La presenza delle cose, in altri termini, non è mai una presenza totalmente dispiegata, ma sempre si dà per adombramenti e in ognuno dei modi determinati del venire alla presenza si dà la cosa stessa. Nel rosso della mela, cioè, non vi è un aspetto particolare della mela, ma tutta la mela, il suo profumo, il suo sapore. Se questo è vero, la lingua delle cose è, allora, l’insieme delle qualità percettive (non certo nel senso empiristico del termine) delle cose stesse.

L’uomo come destinatario della lingua materiale

Ma proprio perché la presenza della cosa è comunicazione di un’essenza e non semplice presenza, proprio perché le cose parlano, sia pure nella loro lingua muta, si richiede l’a chi della comunicazione, un ente che, per propria costituzione, accolga tale comunicazione. Un ente che sia in se stesso lingua in cui le cose possano tradursi. Nelle parole l’uomo si esprime interamente e nelle parole conosce il mondo. Ma solo in quelle parole originarie che traducono immediatamente in sé il mondo, i nomi, appunto. Solo nel puro nome la lingua è evento ontologico.

Benjamin definisce vana, inconsistente e falsa la concezione borghese della lingua perché fa della parola un mezzo con il quale comunicare qualcosa a un altro uomo. Nell’uso semiotico della lingua il datore di nomi si oblia nel semplice informatore, fa della sua lingua e, quindi, della manifestazione di sé, qualcosa di inessenziale.

L’uomo, in quanto padrone del nome, è l’interamente comunicabile e la sua lingua è una lingua superiore a quella delle cose proprio per questa totalità intensiva, a cui corrisponde una totalità estensiva, un’universale denominazione. Senza il nome il mondo semplicemente sarebbe, senza esserci. In questo “ci” – che in Heidegger è la Lichtung in cui accade la verità, in Benjamin il nome in cui la parola accoglie la cosa – l’opera di Dio si compie.

Il nome come identità-differenza di espressione ed allocuzione

Come scrive Benjamin in un importante passo che vale la pena leggere interamente, il nome è l’intima essenza della lingua, perché in esso è la lingua stessa a comunicarsi.

Il nome non è solo l’ultima esclamazione (Ausruf), ma anche la vera allocuzione (Anruf) della lingua. Appare così nel nome la legge essenziale della lingua, per cui esprimersi e apostrofare ogni altra cosa è tutt’uno. La lingua – e in essa un essere spirituale – si esprime puramente solo quando parla nel nome, e cioè nella denominazione universale. Culmina così, nel nome, la totalità intensiva della lingua come dell’essere spirituale assolutamente comunicabile, e la totalità estensiva della lingua come dell’essere universalmente comunicante (denominante). La lingua è imperfetta nella sua essenza comunicante, nella sua universalità, quando l’essere spirituale che da essa parla non è linguistico, e cioè comunicabile, in tutta la sua struttura. L’uomo solo ha la lingua perfetta in universalità e intensità. (W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, cit., p. 58)

Il nome, per l’uomo, non è né solo espressione di sé (sich selbst ausprechen), né solo allocuzione di altro (alles andere ansprechen): nel nome, nel tempo stesso in cui si esprime, e nel fatto stesso di esprimersi, l’uomo è apertura al mondo, allocuzione, appello al mondo. Solo nel nome espressione e allocuzione sono lo stesso. Senza il nome le cose resterebbero imprigionate nel gioco caotico, speculare, delle somiglianze materiali, nella semplice espressione di sé e nell’estrinseco alludersi l’un l’altra.

Essenza spirituale e lingua

Sotto la veste di una semplice questione terminologica, Benjamin pone, a questo punto, un problema di rilevante portata metafisica, riguardante il rapporto fra essenza spirituale e lingua. L’essenza spirituale è un’essenza linguistica? Lo spirituale è, per sua natura, ciò che si comunica? Lo spirituale e il linguistico sono lo stesso?

È chiaro che l’affermazione di identità fra lo spirituale e il linguistico si fonda sul significato del verbo essere, inteso in  quel senso speciale che alcune righe sopra Benjamin aveva indicato come il mediale. L’ente che si esprime, preso non nella sua materialità, ma nel suo essere stesso, nel suo darsi, nel suo comunicarsi, è immediatamente lingua e perciò stesso, necessitante, come abbiamo visto sopra, di un “a chi” comunicarsi. In quanto linguistico, lo spirituale non è nulla in sé, non ha alcuna essenza sostanziale, esso è non l’ente, ma l’essere dell’ente. Il linguistico, in Benjamin, è ciò che in Heidegger è l’ontologico. L’essere di una cosa, la sua essenza spirituale, è il comunicarsi della cosa e nient’altro e tale comunicazione è nella misura in cui c’è chi la riceve. Senza il signore della lingua, senza l’uomo datore di nomi, l’essenza spirituale delle cose rimarrebbe inespressa, inviluppata nella mera materialità.

Identità-differenza delle lingue

Ma se l’essenza spirituale in generale è l’essenza linguistica, non perdiamo quella distinzione fondamentale fra l’uomo e le cose e fra le rispettive lingue affermata poco sopra proprio per il fatto che, mentre nell’uomo l’essenza si dà interamente nella lingua, nelle cose, invece, tale essenza si dà sempre in modo imperfetto?

Solo nell’uomo l’essenziale coincide interamente con lo spirituale e, quindi, con il linguistico. Anche nella cosa lo spirituale e il linguistico sono lo stesso, ma in essa lo spirituale non è il tutto della sua essenza, come nell’uomo, appartenendo a essa costitutivamente ed essenzialmente anche la dimensione materiale. Il punto decisivo in questa distinzione benjaminiana è che non c’è differenza di natura fra lo spirituale delle cose e lo spirituale dell’uomo, fra la lingua delle cose e la lingua dell’uomo, ma una differenza di grado, la quale non è affatto meno radicale di una differenza di natura.

Le differenze delle lingue sono differenze di mezzi (medii), che si distinguono – per così dire – per il loro spessore, e cioè gradualmente; e cioè nel duplice rispetto dello spessore del comunicante (nominante) e del comunicabile (nome) nella comunicazione. Queste due sfere, puramente distinte eppure unite nella lingua nominale dell’uomo, si corrispondono, com’è ovvio, costantemente. (W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, cit., p. 59)

Uomo e mondo si corrispondono nell’identità della lingua, nel mediale, nel medium dello spirituale. Ma tale corrispondenza non è paritetica e la stessa lingua si dispiega in una variegata scala di differenze mediali articolate attorno alle due grandi sfere dell’essenza che si esprime e dell’essenza espressa, due  poli che solo nella lingua dell’uomo sono costantemente co-appartenenti. La lingua appare così il luogo stesso della differenza, non sussumibile in alcuna identità. Ogni ente parla, con gradi diversi di spiritualità, la stessa lingua e la differenza attraversa la stessa identità spirituale e la distribuisce in una gerarchia di esseri spirituali e linguistici.

Il concetto di rivelazione

Se lo spirituale è il linguistico, allora ciò che è spirituale in senso eminente è anche ciò che è comunicabile massimamente. Tale considerazione è di grande importanza in rapporto al concetto di rivelazione.

Come in ogni fenomeno di espressione, anche nella lingua vige il contrasto fra l’espresso e l’esprimibile, da un lato, e l’inespresso e l’inesprimibile, dall’altro. In tale prospettiva l’essere supremo dovrebbe essere anche il più inattingibile, il meno esprimibile. L’essenza infinita, proprio perché tale, sarà anche quella che rimarrà in massima parte inaccessibile. Ciò, tuttavia, è in contrasto con l’equiparazione di essere spirituale ed essere linguistico, secondo cui l’essere spirituale e supremo, Dio, si deve esprimere in modo assolutamente perfetto. Nel verbo rivelato, cioè, l’essere spirituale e divino si manifesta proprio per ciò che è. Nulla a che fare, naturalmente, con l’evidenza della rivelazione. L’esprimibilità dell’essenza di Dio nel verbo e la conoscibilità di tale espressione sono due problemi di ordine diverso. Proprio perché nel verbo l’essere di Dio si rivela interamente, la parola rivelata è intoccabile nella sua letteralità.

Il nome come luogo della rivelazione del verbo

Ma la cosa fondamentale da notare è il ruolo insostituibile e determinante che l’uomo gioca nella rivelazione dell’essere spirituale e divino. Dio sembra non avere altra parola se non quella umana per rivelarsi. Dio, infatti, si rivela nella parola umana e solo in essa. La lingua dell’uomo è il medium in cui Dio stesso parla. In base a ciò è facile capire di quale responsabilità ontologica essa è depositaria e perché è la lingua perfetta e gerarchicamente superiore a ogni altra. Questo non è paradossale come può sembrare. Se lingua significa non una sostanza, un’essenza in sé, ma il venire alla presenza di un’essenza, il darsi di un’essenza spirituale, e se la lingua dell’uomo è la lingua perfetta, allora l’essere spirituale di Dio, quindi il suo essere linguistico (non la sua intera essenza), non può che esprimersi compiutamente nella pura lingua denominante dell’uomo. Come scrive in un illuminante distico Angelus Silesius: “So che senza di me, Dio non può un istante vivere: se io divento nulla, deve di necessità morire.” (Il Pellegrino cherubico, ed. Paoline, p. 108). Solo grazie all’uomo Dio e il mondo ci sono.

Dio, uomo, mondo

Incontriamo nella prospettiva dell’ontologia linguistica di Benjamin una tripartizione classica della filosofia: Dio, uomo, mondo. In forza dell’identificazione dello spirituale con il linguistico, quest’ultimo non va inteso nella prospettiva ontica del semiotico, ma in quella ontologica del portare alla presenza. Le cose parlano una lingua affidata al medium materiale, una lingua imperfetta e muta. Solo se nominate ci sono (accedono all’essere), altrimenti semplicemente sono. Dio, l’essere spirituale supremo, è verbo creatore, la sua parola è immediatamente efficace, ma tale verbo creatore si esprime solo e sempre in parole umane. Una corrente della Kabbalah afferma che il verbo creatore non è parola dispiegata, ma virtualità inviluppata nell’aleph, prima lettera dell’alfabeto ebraico, che non è suono, ma disposizione laringale all’emissione vocale, atto inaugurale di ogni altro suono articolato.

Se questo è vero, tanto le cose quanto Dio parlerebbero in realtà una lingua muta, senza suono, affidata, l’una alla materialità e origine, l’altra, di ogni sonorità verbale. Se il mondo è muto e sottoposto alla parola, Dio è colui che impone di parlare. Solo l’uomo si esprime nel nome che dà alle cose e solo l’uomo esprime nel nome il verbo di Dio.

Arte e lingua materiale

In rapporto a ciò, Benjamin introduce una distinzione di capitale importanza fra religione e filosofia, da un lato, e arte, dall’altro.

Solo l’essere spirituale supremo, come appare nella religione, poggia solamente sull’uomo e sulla lingua in lui, mentre ogni arte, non esclusa la poesia, non si fonda sull’ultima quintessenza dello spirito linguistico, ma sullo spirito linguistico delle cose, anche se nella sua perfetta bellezza. (W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, cit., p. 60)

La distinzione verrà ripresa nelle ultime pagine del saggio, dopo una illuminante analisi del testo biblico riguardante la creazione dell’uomo. Per comprenderla è necessario entrare più in profondità nella distinzione fra lingua della cose (ma anche lingua di Dio) e lingua dell’uomo, sottolineando due aspetti fondamentali.

  • La lingua delle cose è imperfetta: essa porta alla presenza la cosa sempre secondo una prospettiva. La cosa è affetta da quello che potremmo chiamare lo spessore della materialità.
  • La lingua delle cose è muta, manca di ciò che, secondo Benjamin, è il simbolo stesso della lingua e della comunicazione, il suono, a sua volta simbolo dell’alito divino.

Le cose si comunicano solo attraverso una comunità materiale, mentre solo l’uomo trascende il mondo, si pone di fronte al mondo come apertura, come luogo in cui accade la verità delle cose e questo proprio in forza del dono della parola che Dio gli ha fatto inspirandogli il proprio alito.

[Le cose] possono comunicarsi fra loro solo mediante una comunità più o meno materiale. Questa comunità è immediata e linguistica come quella di ogni comunicazione linguistica; ed è magica (poiché c’è anche una magia della materia). L’incomparabile del linguaggio umano è che la sua comunità magica con le cose è immateriale e puramente spirituale, e di ciò il suono è simbolo. (W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, cit., p. 60)

L’affinità o somiglianza immateriale nella comunicazione fra uomo e mondo assomiglia moltissimo, a mio avviso, a quella che Heidegger chiama identità-differenza (o co-appartenenza) fra uomo e mondo. Così come la somiglianza materiale, attraverso la quale le cose si comunicano fra loro, assomiglia molto al rapporto intramondano fra enti, rapporto estrinseco, senza trascendenza. Naturalmente la specificità del discorso benjaminiano non può passare inosservata ed essa è dovuta interamente alla sua concezione dell’identità di ogni essere nella lingua, nella differenza delle sue gradazioni e potenzialità espressive.

La magia della materia

Che cos’è la magia della materia di cui parla Benjamin? Se la magia del nome è il portare alla presenza nella parola l’essenza spirituale della cosa che si esprime, anche la magia della materia deve essere una qualche forma di espressione e di corrispondenza. Colori, forme e ogni altra qualità sensibile, si corrispondono. Ognuna raccoglie tutte le altre e si determina in relazione (estrinseca) a ogni altra.

Sono queste risonanze a costituire il fondamento stesso dell’operare artistico, di quel retentissement fra uomo e mondo che avviene nella lingua materiale stessa delle cose. L’artista è forse colui che, unico, sa ripetere la lingua delle cose non nel nome, ma in una espressione che, pur infinitamente superiore a quella delle cose, è sempre e ancora lingua del materiale.

La creazione dell’uomo

Per trovare il fondamento della differenza della lingua dell’uomo da ogni altra lingua, Benjamin si rivolge alla Bibbia e precisamente alle due storie che riguardano la creazione dell’uomo. Se sopra abbiamo definito il nome come luogo di incontro fra due lingue, ora Benjamin mostrerà che esso è tale perché riflette il verbo divino, la parola creatrice che fa essere il mondo. Come il verbo è immediatamente creatore del mondo, così il nome è immediatamente conoscente.

La “seconda” creazione

Benjamin inizia la sua interpretazione dalla seconda storia della creazione:

La seconda versione della storia della creazione, che parla dell’ispirazione del fiato, riferisce insieme che l’uomo è stato fatto di terra. È questo, in tutta la storia della creazione, il solo passo in cui si parli di un materiale del creatore in cui egli esprime il suo volere, altrimenti concepito come immediatamente creatore. In questa seconda storia della creazione la creazione dell’uomo non è avvenuta mediante la parola (…), ma a quest’uomo non creato dalla parola è conferito il dono della lingua, ed egli è innalzato al di sopra della natura. (W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, cit., p. 61)

Il fatto che l’uomo non sia creato dalla parola come avviene per le cose, mostra che egli non è sottomesso alla parola stessa. L’uomo non è prodotto dalla parola, ma produttore di parole. Nell’uomo vige espressa la differenza, in quanto trascendenza, fra sé e il mondo. Proprio per questo egli è centro e compimento della creazione. Nell’uomo, infatti si riunisce Dio e il mondo, il fiato divino e la terra, il verbo creatore e la cosa creata. La rinuncia di Dio a parlare è il suggello alla creazione, l’affidamento all’uomo, sua immagine e somiglianza, non solo del creato, del mondo, ma anche di se stesso. Il compimento della creazione è anche l’inizio della rivelazione di Dio nel nome che l’uomo ha in proprio potere.

La “prima” creazione

Anche il primo racconto della creazione conferma la libertà dell’uomo dalla parola. Qui la creazione dell’universo è scandita da un ritmo ternario che costituisce una sorta di schema fondamentale dal quale si distingue solo l’atto di creazione dell’uomo.

Il ritmo secondo cui si compie la creazione della natura (…) è: sia (fiat) – fece – nominò. In singoli atti di creazione (…) appare solo il fiat. In questo fiat e nel “nominò” all’inizio e alla fine degli atti appare ogni volta la profonda e chiara relazione dell’atto della creazione alla lingua. Esso ha inizio con l’onnipotenza creatrice della lingua e alla fine la lingua si incorpora, per così dire, l’oggetto creato, lo nomina. Essa è quindi ciò che crea e ciò che compie, è il verbo e il nome. In Dio il nome è creatore perché è verbo, e il verbo di Dio è conoscente perché è nome. (W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, cit., p. 61)

Diverso è lo schema che sovrintende la creazione dell’uomo. Anche qui vi è un ritmo ternario, ma, come nel racconto precedentemente esaminato, non entra la parola, né come forza creatrice, né come nome. Vi è, invece, un triplice creò, che mostra come l’uomo sia svincolato dalla sottomissione alla lingua. Il fatto che il nome sia riflesso del verbo comporta che l’essenza spirituale dell’uomo è la stessa lingua usata da Dio nella creazione. Perciò il nome è immediatamente conoscente e perciò il mondo è immediatamente conoscibile.

Ripetizione e traduzione

Prima abbiamo parlato dell’arte come di una corrispondenza dell’uomo alla lingua delle cose nella stessa lingua di queste ultime, sia pure a un livello superiore. Ora possiamo fare un’altra osservazione. Il nome dell’uomo è solo conoscente, non creatore, e tale conoscenza è la più alta perché essa parla la stessa lingua creatrice di Dio.

Nel nome l’uomo traduce la cosa e si comunica a Dio nella stessa lingua della creazione. Nell’arte, invece, l’uomo ricrea il mondo e lo può fare proprio in quanto ne ripete la lingua a un livello superiore,  pur sempre nella lingua delle cose, che è la stessa – nella differenza – della lingua dell’uomo, la quale è, a sua volta, la stessa della lingua di Dio. Il problema della creazione artistica, in quest’ottica, diventa un problema di ripetizione linguistica, diverso e complementare a quello della conoscenza filosofica e della critica d’arte, che è un problema di traduzione (esposizione) in parole del darsi delle cose.

 

Lascia un commento